All’alba del voto inglese che nel 2016 ha fatto tremare l’Europa e che continua a tenerla con il fiato sospeso, un ragazzo italiano, una ragazza francese e un ragazzo tedesco reagiscono allo sgomento e al timore sondando il terreno con una pagina Facebook e un sito per capire se, davvero, gli europei hanno smesso di credere nell’Europa unita. Quello che doveva essere un appello rivolto a pochi comincia a echeggiare tra le maglie della Rete, raggiungendo un numero inaspettato di Paesi e sostenitori. Tre anni dopo, quell’appello ha un nome che compare in bianco su campo viola in tutta Europa.
È così che nasce Volt, il movimento politico oggi presente nei 28 Paesi dell’Unione (più Svizzera, Norvegia e Albania) e che ha statuto di partito in 12, compresa l’Italia, dove è presieduto dalla venticinquenne Federica Vinci. Oggi Volt si appoggia su crowdfunding e autofinanziamenti, conta 20 mila volontari attivi in Europa e ha un chiaro obiettivo: presentarsi alle elezioni europee di maggio in almeno sette Paesi con un unico programma.
La vera novità di Volt è infatti quella di aver realizzato, con la collaborazione di persone provenienti da tutta Europa, un programma che indica obiettivi e politiche in forma sufficientemente generica da essere condivisa da più Paesi, e sufficientemente specifica da essere poi declinata in programmi nazionali tra loro coerenti. Volt punta dunque alle europee non in qualità di coalizione di diversi partiti, ma come primo vero movimento europeo che condivide valori, obiettivi e proposte sistematiche.
Non è difficile vedere il potenziale a lungo termine di una simile alternativa. Oggi l’Europa si trova ad affrontare i problemi dei suoi membri attraverso soluzioni che devono essere discusse e supportate da altri Paesi interessati, con il rischio che questioni di portata europea finiscano per essere declassate a problematiche nazionali e, come insegna la nostra esperienza con i migranti, ignorate fino a scatenare crisi comunitarie. L’approccio Volt, al contrario, vorrebbe che questioni come l’immigrazione, il riscaldamento globale, la sicurezza o l’economia dell’Unione fossero già gestite a livello europeo, così che la soluzione delle emergenze nazionali non richieda quel continuo braccio di ferro che oggi assorbe energie e risorse, distogliendo l’attenzione da altre tematiche altrettanto urgenti.
Presentandosi come movimento paneuropeo, Volt sceglie di non usare le categorie di destra e sinistra perché troppo ampie e legate alle esperienze storico-politiche dei singoli Paesi. Né di destra né di sinistra, dunque, ma progressista. Volt si presenta sulla scena politica europea con un programma che punta su sostenibilità ambientale, rinascita economica dell’Unione, promozione dei diritti civili e sostegno all’innovazione e all’educazione. In particolare, dalla Dichiarazione di Amsterdam che raccoglie le politiche targate Volt, emerge una carbon tax europea per la riduzione delle emissioni di CO2, investimenti e incentivi per energie rinnovabili e l’avvio di un’economia circolare che azzeri gli sprechi. Al centro della proposta viola anche legislazioni che assicurino totale parità di genere nei luoghi di lavoro e nel settore pubblico, oltre all’implementazione dei diritti Lgbtiq+.
Più di tutto, però, Volt vuole un’Europa unita, seppur diversa da quella che conosciamo. Ecco che gli attivisti Volt si definiscono allora europeisti critici perché, se è vero che è necessario lottare contro il populismo e il sovranismo che dalla Francia all’Ungheria all’Italia si stanno diffondendo a macchia d’olio, è altrettanto vero che l’Europa non può rimanere così com’è. L’idea, come ha sottolineato il fondatore e presidente di Volt Europa Andrea Venzon, è «creare un sistema federalista più integrato», guidato da un governo europeo che garantisca all’Ue di intervenire in maniera più efficace sui problemi dei suoi membri e permetta all’Europa di competere con i colossi mondiali di Cina e Stati Uniti promuovendo crescita e lavoro. È proprio l’occupazione la chiave della proposta Volt, che oggi in Italia critica duramente il reddito di cittadinanza dell’attuale governo. Crescita economica non significa dunque puntare sull’assistenzialismo, ma, al contrario, convogliare i fondi Ue nelle regioni in difficoltà per creare posti di lavoro, aumentare la spesa pubblica per l’istruzione professionale e incentivare l’imprenditorialità facilitando la costituzione e il mantenimento di un’impresa.
L’idea di un’Europa più vicina, più partecipativa e capace di rispondere alle esigenze dei suoi cittadini allontana così lo spauracchio populista di un’Europa vista come un mostruoso Leviatano burocrate che tutto prende e niente dà. La risposta Volt a chi lamenta l’incursione a gamba tesa dell’Europa nelle politiche nazionali senza dare nulla in cambio è allora questa: costruiamo un’Europa migliore e più democratica, ma non abbandoniamola. È proprio per questa nuova concezione dell’Unione che la proposta Volt sta attirando un numero crescente di giovani che trovano nel partito viola la risposta alla loro visione del presente e del futuro.
In Italia, dove Volt è presente in oltre 60 centri, la tendenza è la stessa: i “volters” sono per la maggior parte (ma non solo) giovani, competenti e preparati, hanno esperienze all’estero o, quanto meno, ne hanno compreso il valore.
Costruito sul modello del Community Organizing che già affascinò Barack Obama, Volt si basa su un’idea di leadership diffusa che rispecchia la tendenza della democrazia contemporanea, ma è contraria alla teoria politica che, da Max Weber in poi, può essere riassunta con una frase del machiavellico Roger Stone, marionettista delle vittorie repubblicane da Nixon a Trump: “È da sciocchi pensare di vincere una corsa senza un buon cavallo”. I media questo lo sanno bene e, in Italia, hanno identificato il cavallo Volt nel fondatore Andrea Venzon, 27 anni, laurea in Economia, un master alla London Business School e uno alla Columbia University in Public Administration.
Per presentarsi alle europee anche nel nostro Paese, tuttavia, Volt si scontra con l’obbligo costituzionale delle 150 mila firme necessarie per correre. Uno scoglio democratico unico nel suo genere (in Germania sono sufficienti 4 mila online), al quale si aggiunge poi lo sbarramento del 4%. Volt sta provando a superare quest’ostacolo con una raccolta firme in tutta Italia, ma resta un obiettivo difficile da raggiungere.
L’alternativa per correre ugualmente c’è e si chiama coalizione. Alcuni giorni fa l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha espresso pubblicamente il desiderio di incontrare Volt insieme a +Europa, Pd e Italia in Comune per valutare possibili alleanze. Come insegna l’attuale esperimento di governo, però, il rischio per un partito neonato è finire nella morsa di un gioco forza esercitato da chi ha più potere, esperienza o voti. Allo stesso tempo, sacrificare questa opportunità sarebbe un peccato per chi, come Volt, crede che sia necessario arrivare a Bruxelles per cominciare a cambiare le cose.
Indipendentemente da questa scelta, quello di Volt resta un progetto a lungo termine che non si ferma alle europee. L’obiettivo infatti è ora duplice: da un lato, continuare a progettare a livello europeo e, dall’altro, cominciare a radicarsi a livello locale. Per discutere anche di questo, il 23 e 24 marzo si terrà a Roma il primo Congresso europeo che ospiterà tutti i candidati. Non è un caso che la scelta cada proprio su Roma, centro oggi di quella parte dell’Europa che alza la voce per lamentarsene. E non è un caso – forse – che, proprio nella capitale, il 25 marzo di 62 anni fa sei Stati, tra cui l’Italia, firmavano il Trattato che ha dato vita alla Comunità economica europea e, poi, all’Unione. Chissà che all’Europa una simile coincidenza non porti fortuna.
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