«Come la bassa Toscana e l’Umbria, l’alto Lazio in politica è di colore rosseggiante. La politica è mossa da ragioni oggettive, e non si può spiegare con la psicologia». Così scriveva Guido Piovene nel 1956 nel suo Viaggio in Italia, narrando le peculiarità della regione attraverso il primo territorio incontrato scendendo lungo la penisola: Viterbo e la Tuscia. Eppure, quel «colore rosseggiante» aveva anche una diversa e più longeva matrice rispetto alle culture politiche territoriali che allora contrassegnavano l’«Italia rossa», così come l’Istituto Cattaneo la disegnava e mappava, tra la provincia mantovana nel Nord e la provincia viterbese nel Centro.

«Saggezza, molti preti, aria di festa parrocchiale e di curia; si direbbe che, in molti tratti, anche il paesaggio prenda le tinte ecclesiastiche». Se «la scarsità delle vie di comunicazione sotto il dominio papale favoriva l’isolamento», le cose erano andate mutando: «nell’ultimo dopoguerra è intervenuta con rigore la riforma agraria. Le comunicazioni, l’affluenza a Viterbo del ceto impiegatizio della riforma, l’innalzarsi dei contadini e l’ingigantirsi di Roma, hanno privato il Viterbese dell’antica apparenza di reame appartato; qualche traccia rimane nei caratteri; ma oggi il Viterbese è l’opposto, “una terra di transito”» (le citazioni sono tratte dall'edizione del Viaggio in Italia pubblicata da Baldini&Castoldi nel 2007, pp. 802-803).

Nei decenni successivi decisiva fu la sfida per Viterbo e il suo territorio: individuare prospettive di sviluppo e di trasformazione nel fungere da crocevia tra molteplici spazi socio-economici e politico-amministrativi: nell’Italia mediana, tra la pervasiva capitale metropolitana e le periferie urbanizzate della provincia. Ancora oggi è in atto un riassetto del sistema politico-amministrativo locale, con le contraddizioni e le incognite di un inedito processo di legittimazione di una nuova classe dirigente; in una stretta connessione prima tra dimensione locale e spazio nazionale e quindi tra territori e politiche regionali (sia nell’Italia repubblicana sia nell’Unione europea).

La competizione tra i partiti politici e l’azione delle amministrazioni locali fu scandita da diverse opzioni sullo sviluppo del territorio, in stretta simbiosi con le scelte dei governi nazionali per la ricostruzione e la modernizzazione dell’economia italiana. Nel dopoguerra il territorio registrò la distinzione amministrativa tra le coalizioni guidate dalla Dc in comune e invece la prevalenza della sinistra in provincia. Due furono i processi maggiormente influenti: l’impatto della riforma agraria e l’esperienza delle fabbriche cooperative di ceramica nel distretto industriale di Civita Castellana. Se con la nascita del Mercato comune europeo, nella primavera del 1957, la Democrazia cristiana fu pronta a muoversi verso una programmazione economica capace di agire sulle due leve dell’intervento statale e delle politiche comunitarie, il Partito comunista continuò a reclamare una programmazione democratica fondata sulla realizzazione delle regioni come motore dello sviluppo economico territoriale.

Mentre nella provincia di Viterbo la formazione di una giunta di centrosinistra avvenne soltanto nel 1966, i temi della programmazione economica per lo sviluppo del territorio furono in effetti rilanciati nel 1970 con la nascita delle Regioni a statuto ordinario. Nel quadro della giunta di sinistra formatasi alla regione Lazio dopo le elezioni amministrative del 15 giugno 1975, l’elezione di Rosato Rosati a sindaco di Viterbo (1975-1983), con una maggioranza composta dalla Dc, dal Pri e dal Psdi, e la costituzione nel 1976 di una giunta provinciale di sinistra guidata prima da Marcello Polacchi e poi da Ugo Sposetti (1976-1983) ebbero l’effetto di riproporre la competizione  tra «Comune bianco» e «Provincia rossa», ormai però in un diverso quadro di azioni complementari per lo sviluppo del territorio.

Negli anni Settanta la competizione  tra "Comune bianco" e "Provincia rossa" si mosse però in un diverso quadro di azioni complementari per lo sviluppo del territorio

Nel corso dei secondi anni Ottanta si ebbe tuttavia un graduale declino della capacità delle amministrazioni locali di incidere adeguatamente sullo sviluppo della comunità. Se anche l’alto Lazio venne ricondotto agli equilibri politici del pentapartito, nei primi anni Novanta la sua vicenda politica fu chiusa come altrove dall’iniziativa della magistratura. L’elezione nel 1989 a sindaco di Giuseppe Fioroni e il ritorno alla guida della provincia di Domenico Rosati aprirono la strada alla ridefinizione del sistema politico locale e territoriale degli anni Novanta.

Se la nascita delle regioni aveva introdotto una dimensione inedita nella competizione politico-amministrativa connessa all’implementazione delle politiche regionali della Cee, il Trattato di Maastricht del 1992, l’elezione diretta del sindaco nel 1993 e del presidente della regione nel 1999 spinsero verso dinamiche economiche e politiche nuove i territori dell’Italia repubblicana, in sintonia con la riforma in senso maggioritario della rappresentanza politica nazionale e la competizione tra il centrodestra di Berlusconi e il centrosinistra di Prodi.   

La dialettica tra l’egemonia democristiana a Viterbo e la provincia rossa, che si era avuta durante la «Repubblica dei partiti», assunse nella «Seconda Repubblica» i contorni del lungo ciclo di sindaci di centrodestra (Meroi dal 1995 al 1999; Gabbianelli dal 1999 al 2008; Marini dal 2008 al 2013), bilanciato dalla capacità del centrosinistra di esprimere a più riprese la guida di Palazzo Gentili (Nardini dal 1993 al 1997, Mazzoli dal 2005 al 2010, Mazzola dal 2015 al 2017). Mentre la personalizzazione della politica si espresse con l’elezione a presidente della regione Lazio dei giornalisti Badaloni (1995-2000) e Marrazzo (2005-2009), alla debolezza delle giunte Storace (2000-2005) e Polverini (2010-2013) corrispose la vivacità dei sistemi economici della Tuscia, in grado di affrontare la sfida della moneta unica e della globalizzazione con risultati a tratti sorprendenti.

L’alto livello di innovazione tecnologica e internazionalizzazione dell’industria ceramica di Civita Castellana contribuì nel 2011 alla confluenza delle Confederazioni degli industriali di Roma, Viterbo, Rieti e Frosinone in «Unindustria», cui aderì più tardi anche Latina. Coldiretti favorì la proiezione sui mercati internazionali delle filiere del vino e dell’olio di qualità, con Montefiascone, Canino e Vetralla luoghi di eccellenza. Lo sviluppo della coltivazione delle nocciole nella zona di Caprarola condusse a importanti investimenti la multinazionale Ferrero, con un effetto domino sull’alto Lazio e relative polemiche sulla sostenibilità di un’agricoltura intensiva a ridosso della Riserva naturale del Lago di Vico o nelle campagne del Lago di Bolsena.       

Per quanto riguarda più da vicino Viterbo, l’ambientazione nel quartiere medioevale di San Pellegrino della serie televisiva Il Maresciallo Rocca, con Gigi Proietti e Stefania Sandrelli diretti da Giorgio Capitani per dieci anni di fila (dal 1996 al 2005) contribuì, di concerto alle Terme dei papi, a diffondere un’immagine attrattiva della città e a sostenerne la vocazione turistica. La riscoperta di Viterbo e della Tuscia come terra di cinema, in virtù di alcuni film di Monicelli, Fellini, Pasolini, Zampa, Bellocchio, Moretti, Giordana, Archibugi e tanti altri, per non dire delle scene della produzione hollywoodiana Catch-22, con il divo americano George Clooney, girate nel centro storico di Sutri, si accompagnò a operazione di successo quali il salvataggio dell’antico borgo di Civita di Bagnoregio, trasformato da «città che muore» ad ambita meta di tour operator di tutto il mondo.

In un vuoto programmatico preoccupante rispetto alla posta in gioco del Pnnr, soltanto i prossimi anni potranno dire se i movimenti della società civile saranno in grado di dare ossigeno alle istituzioni cittadine

Fu nel contesto in mutamento dei decenni di fine Novecento che anche Viterbo visse l’esperienza di Città in cerca di Università, dalla nascita della Libera Università nel 1969 all’istituzionalizzazione dell’Università della Tuscia nel 1979, destinata a crescere nei decenni successivi coniugando radicamento territoriale e internazionalizzazione. Nonostante però il monito del presidente della Repubblica Ciampi, in visita il 25 febbraio 2002 alla città e all’Università, a «fare sistema» con le istituzioni regionali, nazionali ed europee per un «modello di sviluppo sostenibile della Tuscia», dal 2013 ad oggi l’azione della giunta regionale di Zingaretti non ha trovato continuità nel tessuto politico locale.

A ben guardare, Viterbo ha risentito pesantemente del venir meno dell’elaborazione dei grandi partiti di massa e della predisposizione della classe politica locale a svolgere una funzione di redistribuzione di risorse a imprenditori e cittadini, a scapito di una visione complessiva della città e di una pianificazione strategica volta a combinare crescita economica, coesione sociale e partecipazione democratica. Il sindaco di centrosinistra Michelini (2013-2018) e quello di centrodestra Arena (2018-2022) non hanno certo invertito la tendenza, dato anche il recente Commissariamento del Comune dopo le dimissioni dei consiglieri di maggioranza. In un vuoto programmatico preoccupante rispetto alla posta in gioco del Pnnr, soltanto i prossimi anni potranno dire se i movimenti della società civile saranno in grado di dare ossigeno alle istituzioni cittadine e se l’assoluta prevalenza di donne tra i candidati a sindaco nel voto del 12 giugno è il segnale inequivocabile del rinnovamento della politica o l’ultima spiaggia di un sistema politico locale andato in frantumi.