Questo articolo fa parte dello speciale Città medie al voto
Sono tornato a Como lo scorso maggio dopo qualche mese di assenza. Non abito più nella mia città natale da un anno e quella che ho ritrovato è una realtà che soffoca e annaspa, attraversata da dinamiche globali, nazionali e locali che sembrano toccarla senza che vi sia una reale consapevolezza di cosa queste significhino o che impatto possano avere nell’immediato. Vedere Como così, in una primavera insolitamente afosa, mi ha fatto tornare in mente una frase attribuita a Claude Lévi-Strauss, che lamenta come “le monde est trop plein”: sovraffollato, surriscaldato, potenzialmente al collasso.
L’antropologo Thomas Hylland Eriksen ha costruito attorno a quest'idea il suo studio sul “cambiamento accelerato” per discutere del surriscaldarsi del pianeta e della vita umana su di esso. Nel 2022, Como mi sembra al centro di questo cambiamento accelerato nei confronti del quale si è cercato di rispondere con tre attitudini, tutte miopi: il cieco entusiasmo, la chiusura più biecamente conservatrice e securitaria e l'ignavia di nascondere la polvere sotto il tappeto.
Como è da diversi anni crocevia – in parte involontaria – di tante dinamiche. Geograficamente e socialmente ha dovuto, negli ultimi sei anni, fare i conti con il suo essere davvero una città di confine, diventando un punto di snodo non solo per il turismo, ma anche per i tracciati delle migrazioni globali. Il 2016 lo ricordò all’improvviso alla città, portando centinaia di persone bloccate tra Nord e Sud del mondo nel parco della stazione di Como S. Giovanni, a poche centinaia di metri dall’ipercontrollato confine svizzero. Una città convinta di essere Capri improvvisamente si è trovata a scoprirsi Lampedusa.
Da un punto di vista climatico, la scorsa estate ha portato a Como e sul suo lago la plateale evidenza dell’emergenza climatica in forma di alluvione e di “un lago di detriti”, effetti di eventi climatici estremi che hanno lasciato un segno importante – questa almeno la speranza – nella memoria della città e della sua comunità. Da un punto di vista sociale ed economico, poi, Como si dà da qualche decennio una nomea di città turistica, complici le bellezze naturali che la circondano e la collocazione geografica unica. La percezione di che cosa sia, nel concreto, questa vocazione turistica è cambiata nel corso del tempo ma, da meno di un lustro, ha preso una forma che sembra chiara: la folla, il riempimento di qualsiasi spazio, nella speranza che il giocattolo non si rompa prima. Una piccola Venezia, una città-brand da spremere, in ogni suo aspetto, fino all’osso.
Gli ultimi anni hanno visto la città guidata dalle destre. Non che questa sia una novità: culturalmente, economicamente e socialmente Como è in tutto e per tutto una città di destra. Ma la giunta uscente, a suo modo figlia delle dinamiche nazionali del 2017, ha spostato ulteriormente il baricentro verso il conservatorismo identitario. Lo ha fatto, soprattutto, come reazione ai fatti del 2016, rispondendo con una serie di misure securitarie e uscite mediatiche da inserirsi nel filone dell’allora rampante ascesa di Salvini. Negli ultimi anni, e in particolare sotto l’amministrazione uscente, Como è stata un laboratorio per queste forze politiche, che vi hanno testato varie iniziative in tema di sicurezza, suscitando rumore a livello nazionale per la loro frequente crudeltà. È in questo periodo che Como ha persino espresso una ministra, rimasta in carica per meno di due mesi, complice il collasso del primo governo Conte, nel 2019. È in questo contesto, infine, che Como è anche diventata una delle città più avanzate con la sperimentazione – illegittima – del riconoscimento facciale negli spazi pubblici, come riscontrato da un’inchiesta cui ho partecipato nel 2020 e che diede inizio a un percorso politico che, ha portato, due anni dopo, all’approvazione di una moratoria nazionale (discutibile) sull’uso di questa tecnologia.
Ma la città è ferma da allora, bloccata da un clima politico chiuso e rancoroso, amministrata senza una visione, senza la consapevolezza di che cosa possa essere e senza un chiaro piano in merito a che cosa stia, invece, diventando. Nonostante questa stagnazione, la città continua però a dimostrarsi attrattiva da un punto di vista turistico: si riempie ogni weekend, per la gioia – comprensibile – dei tanti attenti ai numeri, agli afflussi e ai guadagni. Questo riempimento non è in alcun modo governato o messo in discussione, se non in qualche uscita campanilista e snobistica sullo scarso livello del turismo di massa. Como deve restare quanto più aperta possibile a chiunque la voglia raggiungere ma deve anche continuare a essere una città in cui poter vivere. Il turismo ha numerosi effetti benefici sulla città, ma ha anche contraccolpi importanti. Sposta, in primis, l’asse della città dai cittadini ai turisti e, se non controllato, quell’asse rischia di spingere i cittadini sempre più fuori dalla città. Cosa che, ho la sensazione, stia già avvenendo progressivamente.
La città che ho visto a maggio sembra in modo crescente un luogo senza identità, simile a qualsiasi altro luogo attraversato da queste stesse dinamiche. Un luogo prevedibile, fatto di AirBnB dai nomi evocativi, palazzi “riqualificati” tutti allo stesso modo, tavolini all'aperto. Attorno, entusiasmo rispetto agli influencer in visita, una mobilità automobile-centrica e una città che inevitabilmente soffoca. E non soffoca per via delle presenze in sé, ma perché il soffocamento è il modello che si sta perseguendo, e semplicemente perché “funziona”. Una città, appunto, “trop pleine”.
Che il prezzo da pagare per questa narrazione sia una città inavvicinabile, spoglia, inquinata, costosa oltre ogni limite e ragione e sempre più svuotata sembra non interessare, anche perché la città si regge su rendite di posizione che hanno tratti quasi esoterici nella loro immutevolezza. Una città per ricchi, possibilmente di passaggio; una città che deve funzionare come “scenario”, ma che continua a dimenticare che il suo scenario principale – il lungolago – è deturpato dal 2009 da una ferita di cemento che è stato ecomostro prima, cantiere infinito poi e vergogna assoluta per tutto il tempo trascorso. Una città in cui gli eventi culturali, per lo più, avvengono altrove, mentre i suoi spazi cadono a pezzi. Una città che è un cuneo scavato tra le montagne e il lago, che è invaso di traffico, ma che pensa di risolvere il problema invitando più auto a entrarvi. Una città che si sta auto-gentrificando guardandosi allo specchio e rifiutando qualsiasi cosa esuli da questa narrazione tossica.
Attorno a queste elezioni si possono solo formulare auspici. Impossibile non auspicare, ad esempio, che le forze che gravitano attorno al centro-centrosinistra cittadino possano produrre un’idea di città o che possano, almeno, affrontare le reali questioni che stanno azzerando il suo tessuto sociale. O non auspicare che finisca la guerra alla povertà e alla marginalità che ha guidato l’azione dell’amministrazione uscente e che Como possa tornare a essere una città, prima che un brand da vendere.
Nel frattempo è estate e quello che di fatto è l’unico significativo parco cittadino sarà inaccessibile alla cittadinanza per un mese, affittato – per poco più di un milione di euro – per il matrimonio privato di un anonimo tycoon.
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