All’alba della tornata amministrativa del 12 giugno, gli articoli che abbiamo incluso nello speciale “città medie” ci hanno raccontato un’Italia complessa. Il voto ha interessato circa 9 milioni di elettrici ed elettori, di questi il 60,12% si è recato effettivamente alle urne, con picchi di astensione che a livello regionale in Liguria e in Molise hanno toccato quasi il 50% (nelle due regioni hanno votato rispettivamente il 50,70% e il 50,56% degli aventi diritto). Questa Italia l’abbiamo voluta chiamare “Italia di mezzo”, con riferimento al significato attribuito alla locuzione da Arturo Lanzani, “categoria residuale” che include città medie capoluoghi funzionali di area vasta, conurbazioni, paesi di fondo valle, alcune zone costiere, paesi satellite e città di commuters. Non intendendo, quindi, in questo caso le “regioni intermedie” o del “centro” del Paese, accezione che si trova per esempio nei lavori di Francesco Ramella.

Il tema emerge analizzando i numeri del voto essenziali. La maggior parte (l’86%) dei comuni chiamati al voto sono inferiori ai 15 mila abitanti, circa 800 comuni, rappresentando tuttavia circa il 36% della popolazione elettorale. Dei comuni sopra la soglia dei 15 mila abitanti, la maggior parte si trova all’interno delle province di Milano (11), Napoli (7) e Roma (7), andando tuttavia a vedere più nel dettaglio la distribuzione e la demografia dei comuni sopra i 15 mila abitanti notiamo come solo 8 comuni superino i 100 mila abitanti (Palermo, Genova, Verona, Messina, Padova, Parma, Monza e Piacenza), 47 sono tra i 100 mila e i 30 mila (capoluoghi di provincia, aree di cintura) e 70 comuni sotto i 30 mila (punti di riferimento territoriale sparsi per la penisola, aree di cintura). Queste elezioni ci dicono pertanto molto di un’Italia più minuta, di cui abbiamo sentito parlare ma che molto spesso molti di noi non saprebbero collocare su una mappa, eppure rendiamo conto di come gran parte dell’Italia sia fatta storicamente da territori di queste dimensioni. L’Italia di mezzo, se vogliamo, è l’Italia: un Paese con poche grandi città e dove anche il “cuore urbano” (le città metropolitane) sono in realtà costituite dalla diversità e dal policentrismo.

Il voto e le dinamiche elettorali sono profondamente intrecciati alle dimensioni territoriali. Per questa ragione fornire un quadro rispetto alle aspettative, alle speranze e alle fratture dei territori e le città alla vigilia di questa tornata elettorale era il nostro obiettivo. Abbiamo così evidenziato le maggiori sfide territoriali a cui gli aspiranti amministratori saranno chiamati a rispondere le diverse strategie messe in campo per gestire la transizione demografica, sociale, economica, culturale e politica dei territori al voto. Tuttavia, ebbene si trattasse di un appuntamento soprattutto locale, come sottolineato da Bagnasco, si è configurato come uno dei primi tasselli per conquistarsi un frammento di consenso in vista delle elezioni politiche dell’anno prossimo.

Scorrendo la mappa di questa Italia, attraverso gli articoli raccolti, ci rendiamo conto di come l’elemento della crisi sia un terreno trasversale, che si manifesta sotto molteplici forme: tutti, sebbene in maniera diversa, si interrogano sui rischi di immobilismo e stagnazione. Gli amministratori eletti sono chiamati a gestire una trasformazione in corso riguardo il ruolo, le funzioni e i significati delle città medie, in uno scenario complesso a livello nazionale e globale.

In maniera trasversale, gli articoli forniscono spunti di riflessione ed esempi riguardo la ricerca di un nuovo ruolo territoriale per la “città media”, alcune fotografie ci aiutano in questo esercizio di immaginazione riguardo i futuri di (parti di) città funzionali a un passato non più riproducibile: dall’Arsenale di La Spezia, alle funzioni di confine di Gorizia, al ruolo logistico di Alessandria. Il cambiamento delle funzioni legate a una città e più in generale a un territorio è un momento di passaggio la cui gestione richiede la presa in carico di un’immagine strategia di area vasta e di un “rischio politico”. Se la transizione è una cifra del nostro presente, comprendere come questa si declina a livello locale, fare interagire questo livello con lo spazio dei flussi e governarlo, può configurarsi un compito arduo per gli amministratori, i cittadini e i diversi attori che sono chiamati a rispondere con strumenti politici e culturali non sempre disponibili. In questa direzione, molti articoli evidenziano questo tema in termini di spostamento di baricentri verso altre zone: a Catanzaro, per esempio, dove “il progressivo spostamento del baricentro politico, amministrativo, economico, accademico, giudiziario e – come conseguenza – anche demografico della città verso i quartieri di Germaneto e di Catanzaro Lido deve probabilmente considerarsi una scelta obbligata”. O a livello amministrativo e dei servizi, come ben descritto nel caso di Belluno in cui “la centralità amministrativa s’è indebolita, molti enti pubblici sono stati chiusi come la Banca d’Italia, altri, come la Camera di Commercio, i sindacati Cgil, Cisl e Uil, il Centro servizi per il Volontariato e Confcooperative, hanno fuso le loro sedi con quelle di Treviso”.

Ma anche baricentri geografici e connessi al cambiamento di centralità della macro-regione e del ruolo dei grandi centri urbani, oltre che dei modelli produttivi, come evidenziato per Alessandria: “Se qualche decennio fa la città poteva vantarsi di essere il centro geografico del triangolo industriale, oggi è marginale rispetto ai grandi corridoi territoriali e ai poli urbani, e si ritrova impaludata in una terra di nessuno”. Luoghi di transito, materiale e politico che sollevano il tema della costruzione delle alleanze e della concorrenza, così come a Viterbo, definita “crocevia dell’Italia mediana” e Alessandria, in cui davanti a poli attrattori vicini si cerca la strada per nuove possibilità di sviluppo integrato tra chi è fuori dai poli.

L’Italia di mezzo è in contrazione: demografica, economica, istituzionale, amministrativa, economica e di visione. Come un muscolo che si contrae per un crampo e che non riesce così più a distendersi e a funzionare come atteso

A livello demografico, ai futuri amministratori si pone la domanda riguardo quali politiche mettere in campo in risposta al declino demografico e al calo di attrattività: la paura di restare immobili si misura nell’invecchiamento e nel difficile ricambio generazionale, nel calo della natalità ma anche nelle migrazioni selettive. Giovani che si spostano come descritto a proposito di Oristano, dove si assiste a un “costante movimento centrifugo che ha trascinato nella sua emorragia soprattutto le coorti più giovani”.

L’Italia di mezzo è in contrazione: demografica, economica, istituzionale, amministrativa, economica e di visione. Come un muscolo che si contrae per un crampo e che non riesce così più a distendersi e a funzionare come atteso. Stasi che, anche quando attraversata da importanti e crescenti flussi turistici come nel caso di Como; “diventata una città bloccata […], amministrata senza una visione, senza una consapevolezza su cosa la città possa essere”.

Il turismo si configura come possibile strategia nella riorganizzazione della città in crisi con il doppio rischio che le amministrazioni e gli attori sovrastimino il potenziale e il capitale turistico delle proprie città, e che spostino l’asse della città dai cittadini ai turisti, con la complicazione che, se non controllato, quell’asse rischia di spingere i cittadini sempre più fuori.

All’interno dell’Italia di mezzo, poi, c’è “Bruttitalia” (cfr. il saggio di F. Barbera e J. Dagnes in Contro i Borghi): luoghi che sembrano non volersi arrendere al semplice fatto che l’Italia è un Paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di posti brutti. I posti in cui i turisti non hanno nessun motivo per andare, ma che ciò nonostante continuano a inseguire la chimera della turisticizzazione. Belluno, La Spezia, Avola, hanno in comune il fatto di essere città non storicamente turistiche nei pressi di territori ad alta vocazione turistica: le Dolomiti, Le Cinque Terre, Noto e la costa siracusana. Sarà interessante vedere come città una volta centri di servizi e poli economico industriali, una volta venute meno le vocazioni storiche, ridefiniscano il rapporto con la propria “provincia turistica”, tentando di uniformarsi e allargando, in un certo senso, i confini dei distretti turistici.

Ma spesso le risorse turistiche sono limitate dalla stagionalità: si pensi al caso di Avola, segnata dalla limitatezza delle risorse ambientali disponibili “per l'assedio di vaste aree di abusivismo accumulatosi negli anni, dall'esiguità delle bellezze architettoniche”. Il tema, qui, sarà capire se e come l’effetto alone del turismo in luoghi che godono di luce riflessa sia compatibile con la valorizzazione dei beni e dei servizi essenziali: una politica quindi che non si cura di rendere attrattiva la città per qualche sporadico turista, ma si impegna ad attrezzare la vita quotidiana delle persone con infrastrutture sociali e di cittadinanza.

Le città analizzate ci aprono quindi a una stagione politica che dovrà avere come punto all’ordine del giorno la gestione della transizione, con un importante anche se non esclusivo riferimento alla dimensione economica. Da una parte la deindustrializzazione di città che avevano storicamente costruito la loro narrazione e il loro collante sull’essere città fabbrica ‑ come sottolineato a proposito di Torre Annunziata ‑ dall’altra il ridimensionamento della dimensione distrettuale e logistica, rispondendo al rischio di ritrovarsi “terra di nessuno” a cavallo dei flussi degli altri, come nel caso di Alessandria.

A questo si somma il banco di prova più difficile per gli amministratori, rappresentato dalla gestione della transizione ecologico-ambientale. Si tratta di una sfida di lungo termine, visibile già oggi nei suoi effetti devastanti, che non esaurendosi nei cinque anni di un mandato rischia di non trovare risposte adeguate, anche se le città e i territori-di-mezzo possono svolgere un ruolo cruciale per ridisegnare il futuro (“localizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile”). Gli autori ne parlano in termini di ferite legate all’inquinamento, la necessità del recupero e paure complesse tra l’economia e la salute che non possono dirsi troppo ad alta voce (si vedano in particolare i casi di La Spezia e Alessandria).

Se a mutare definitivamente è il ruolo economico e sociale della città, una prospettiva interessante riguarda come questo si riverbera nelle parole della città, il livello della narrazione, il racconto pubblico, ma anche il loro potenziale come attori culturali, che modella in maniera diretta e indiretta anche aspirazioni e prospettive di chi vi abita. In questo senso diversi articoli (Alessandria, Viterbo e Catanzaro) si interrogano sulla parabola delle cosiddette “università regionali”, quelle università che a partire dagli anni Novanta si sono inserite in contesti di città medio piccole. Tema, questo, ripreso anche nell’intervista di Arnaldo Bagnasco.

Date le considerazioni precedenti, in che modo interpretare l’esito del voto? Avvicinandosi al tema delle elezioni, gli articoli sollevano temi interessanti riguardo la transizione politica che caratterizza le città: la necessità di costruire una classe dirigente politica rappresentativa della realtà sociale della città (Torre Annunziata e Viterbo), ma anche il tema delle autonomie locali e dei rapporti regionali.

Guardando più da vicino ai risultati e alle discontinuità si vede come alcune città storicamente a sinistra si siano rivolte a destra: a Pistoia e a La Spezia, come ben anticipato dalle analisi degli autori, il centrodestra non passa per il ballottaggio incassando rispettivamente il 51,49% dei consensi e il 53,58%, assecondando nel caso di Spezia quel mutamento profondo nella classe lavoratrice. Il caso di Pistoia ci parla di quella che potremmo definire “metropolizzazione” delle classi dirigenti e del mancato ricambio generazionale di queste in provincia. Il centrosinistra, senza ballottaggio tiene solo a Lodi, dall’altra parte Asti, Belluno, Rieti e Oristano vanno al centrodestra. Le altre partite: Alessandria, Cuneo, Lucca, Monza, Como, Parma, Piacenza, Frosinone sono ancora aperte con un leggerissimo spostamento a sinistra.

Il voto a Parma segna un’ulteriore chiusura simbolica della stagione 5 Stelle, non presenta il simbolo e Pizzarotti in lista con il centrosinistra si attesta come secondo gruppo di coalizione con l’8,48%. A Viterbo, entro uno scenario frastagliato in cui il centrodestra si presenta diviso tra Lega e Forza Italia (8,32%), da una parte, e Fratelli d’Italia dall’altra (16,62%), davanti a un centrosinistra “largo” che segue con il 28,30%, a guidare i consensi della prima tornata c’è la candidata civica Frontini con il 32,82 %: riuscirà a convogliare anche i voti del centrodestra? A Catanzaro, in attesa del ballottaggio, vince (44,01%) un centrodestra “spurio” e composito privato della componente Meloni (che si ferma al 4%) senza simboli ufficiali, come ben anticipato da Vittorio Mete nel suo articolo, si tratta di un “centrodestra frammentato e travagliato dalle lotte intestine”, che tuttavia supera il candidato del centrosinistra, fermo al 31,71%.

Prima del voto ci siamo chiesti se andare a guardare come la provincia vota in relazione al capoluogo, specie se ai margini dei maggiori centri metropolitani. A Torino, i comuni della cintura si uniformano all’orientamento di centrosinistra, confermandosi un red-belt che vale per alcuni comuni dell’area il soprannome di “Stalingrado d’Italia”. Sono comuni dove il centrosinistra avrebbe qualcosa da imparare: capacità di ricambio della classe dirigente, rappresentanza delle classi medio-basse, radici solide nel passato con capacità di innovazione.

A Milano il quadro è differenziato, con comuni come Sesto San Giovanni che (dovrebbe) riconfermarsi al centrodestra (intrecciata in un centro senso alle vicende di Spezia e Pistoia), ma anche Melegnano (appena fuori il confine cittadino), mentre altri come Buccinasco, San Donato Milanese vanno al centrosinistra. È, questo, il caso del giovane sindaco Emanuele Gaito, eletto a Grugliasco con il 70,08% dei consensi. Tuttavia, a guardare più in dettaglio i risultati di comuni minori emerge il ruolo che le liste civiche hanno nell’orientare i risultati: liste difficili da leggere per un osservatore esterno digiuno delle dinamiche locali, talvolta più chiaramente collocate, altre volte in discontinuità con i partiti mainstream. In ogni caso, di molto complessa interpretazione se proiettate a livello nazionale.

Che cosa ci dice il successo delle liste civiche nell’Italia non cittadina e metropolitana? Come si colloca lo scenario “civico” nel panorama politico più ampio? In che rapporto sta con il bipolarismo destra e sinistra? La scissione dei 5 Stelle e la divaricazione Conte-Di Maio come influiranno sull’orientamento di voto “civico”? L’annunciato polo di sinistra non in coalizione con il Partito democratico sarà in grado di intercettare il voto civico e parte di quello “in uscita” dal Movimento 5 Stelle? L’operazione “campo largo” di Enrico Letta rappresenta un intelligente tentativo di rinnovamento anche del Partito democratico o è solo tattica per costruire una “sinistra per procura”?. Per provare a rispondere almeno in parte a queste domande sarebbe prezioso un esercizio di scomposizione e aggregazione dei dati delle coalizioni per leggere i risultati – spesso in crescita in entrambi gli schieramenti – ottenuti dalle liste civiche diretta espressione del candidato sindaco, così da misurare, da una parte, quanto legata al candidato sia la vittoria e, dall’altra, il peso dei partiti tradizionali nell’orientare l’esito finale. In ogni caso, di fronte alla portata delle sfide e crisi sollecitate dalle città all’alba del voto, appare evidente – a ogni livello ‑ l’importanza “della pianificazione strategica di lungo periodo”, volta a ripensare la città ‑ soprattutto quella medio-piccola – come attore politico in grado di orientare le molteplici transizioni con cui oggi i territori devono confrontarsi.