Da molto tempo l’aquila fiera e minacciosa raffigurata nello stemma comunale di Catanzaro non vola più. Come gli abitanti del capoluogo calabrese, assiste, inerme, al declino della città. In effetti, nell’ultimo ventennio, Catanzaro si è svuotata di residenti, passati da 95 mila a 85 mila. Numeri probabilmente sottostimati, che non tengono conto dei tanti studenti e lavoratori che vivono stabilmente fuori regione, senza tuttavia cambiare residenza.
A mancare all’appello sono soprattutto i giovani, visto che nello stesso periodo gli under 18 sono passati dal 21,5% della popolazione complessiva ad appena il 16,3%. Il dato più crudo – e davvero difficile da ignorare – riguarda il crollo delle nascite che furono 965 nel 2002 e solo 581 nel 2021. È vero che l’emorragia di abitanti (dovuta alla contrazione demografica e all’emigrazione) riguarda tutta la Calabria e sostanzialmente l’intero Mezzogiorno. Da un capoluogo di regione ci si aspetta, però, che sia un polo di attrazione di attività e persone. Al contrario, il deficit demografico e l’invecchiamento della popolazione sono fenomeni che a Catanzaro, dati alla mano, sono più marcati rispetto alla media regionale.
Oltre agli abitanti, la città continua a perdere attività economiche. Uno dei motivi è la costruzione di alcuni grandi centri commerciali nell’hinterland che, come succede anche altrove, sono diventati i nuovi luoghi di aggregazione e di consumo. La desertificazione del centro storico che ne deriva ha però cause più profonde e strutturali. Come capoluogo di regione, il profilo economico e occupazionale della città ha sempre beneficiato della cospicua presenza di uffici pubblici. I lavoratori del settore pubblico e il flusso quotidiano di cittadini provenienti da altre aree della regione erano la linfa che nutriva un variegato indotto, fatto di piccole attività commerciali che rendevano particolarmente vivace il centro storico.
Negli ultimi anni, tuttavia, i più importanti centri di impiego pubblico (col loro flusso di utenti) si sono spostati verso l’area pianeggiante della città, che si affaccia sulla costa ionica. A fare da apripista, in assenza di uno strumento urbanistico e programmatorio, a metà anni Duemila, è stata l’università (col suo importante policlinico), che individuò nei vasti terreni agricoli del quartiere di Germaneto la sede nella quale sarebbe sorto il suo esteso e molto frequentato campus. A distanza di tempo, anche la giunta regionale, con gli assessorati e i relativi uffici, dalla città è «scesa» a Germaneto. A ciò si aggiungano almeno altri due elementi che contribuiscono all’impoverimento del centro storico. Il primo è l’accresciuta disponibilità di servizi telematici nella pubblica amministrazione che consente ai cittadini di non muoversi da casa. Il secondo è la costruzione di una grande aula bunker nell’area industriale di Lamezia Terme, dove si celebrano ora i grandi processi che fino a poco tempo fa si svolgevano nelle strutture giudiziarie del centro.
Il progressivo spostamento del baricentro politico, amministrativo, economico, accademico, giudiziario e – come conseguenza – anche demografico della città verso i quartieri di Germaneto e di Catanzaro Lido deve probabilmente considerarsi una scelta obbligata. Il centro storico, adagiato sui tre colli, presenta infatti un annoso problema di spazi (strade e parcheggi) e di vie d’accesso. Il traffico caotico ed estenuante con il quale devono fare i conti residenti e visitatori è la prova dei deficit strutturali della città. Assediato dalle auto e con i locali commerciali sfitti, il centro smette allora di essere il salotto della città e si imbruttisce ogni giorno di più, con la proliferazione di negozi low cost, sale slot e una sfilza di luoghi-simbolo da tempo chiusi al pubblico (dal duomo, alla stazione centrale, alla sala consiliare) o aperti in maniera intermittente e imprevedibile (la funicolare, le gallerie del complesso monumentale del San Giovanni). I contraccolpi del riassetto urbano che marginalizza la parte storica della città si fanno sentire. Sul piano economico, gli immobili e le attività commerciali del centro perdono valore a vantaggio delle case, dei terreni e dei negozi che si trovano nelle zone di nuova espansione. Sul piano demografico, il centro si spopola e invecchia, mentre gli studenti universitari fuori sede e le giovani coppie scelgono sempre più spesso di sistemarsi sulla costa o nelle zone in cui la viabilità (pubblica e privata) non risulti per loro un girone dantesco.
Assediato dalle auto e con i locali commerciali sfitti, il centro si imbruttisce ogni giorno di più, con la proliferazione di negozi low cost, sale slot e luoghi-simbolo chiusi al pubblico
Altri colpi molto duri assestati al tessuto economico e sociale della città derivano da alcune rilevanti crisi aziendali che hanno causato problemi occupazionali piuttosto seri. Tra i settori più in difficoltà c’è la ristorazione collettiva (Siarc), la logistica e i call center (gruppo Abramo) che subiscono la concorrenza di altre regioni europee, dove il costo del lavoro è più contenuto ed è facile delocalizzare questo genere di servizi. Perfino alcuni enti pubblici, come la Provincia e i Consorzi di bonifica, non riescono a pagare con regolarità gli stipendi. Dal canto suo, l’università, fondata sul finire degli anni Novanta, non si è rivelata l’auspicato volano di sviluppo del territorio, com’è invece successo in altre aree del Paese (senza andar troppo lontano, basti pensare alla vicina Università della Calabria che ha potentemente contribuito a risollevare le sorti di un territorio altrimenti destinato alla marginalità). È vero che in questi 25 anni di vita l’ateneo è molto cresciuto e accoglie ora 11 mila studenti (di cui il 61% donne), ma il suo bacino di utenza è perlopiù limitato alla provincia di Catanzaro e alle limitrofe Crotone e Vibo Valentia. Ciò genera un pendolarismo giornaliero che, viste le carenze del trasporto pubblico, ingrossa il traffico automobilistico senza avere un impatto significativo sugli affitti e sul commercio locale e, dunque, sul valore degli immobili e delle attività commerciali.
La peculiarità di Catanzaro, che si caratterizza soprattutto per essere il centro amministrativo della regione, ha qualche riflesso anche sulle forme che in questa area assume la criminalità organizzata. Contrariamente ad alcune rappresentazioni pubbliche del fenomeno, la Calabria non è tutta terra di ’ndrangheta e Catanzaro ne è forse la prova più evidente. La città è storicamente priva di gruppi mafiosi autoctoni e subisce solo qualche incursione da parte di alcune ’ndrine del crotonese o di centri limitrofi. Tagliando il ragionamento con l’accetta, si può sostenere che il panorama criminale catanzarese sia nettamente divaricato. Da un lato, si registra la presenza e l’attivismo di gruppi rom dediti al furto di auto, al piccolo spaccio di droga e altri reati del genere. Dall’altro lato, le indagini giudiziarie si sono a più riprese soffermate sui reati contro la pubblica amministrazione che hanno coinvolto professionisti, funzionari pubblici (tra cui anche alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine), politici di rilievo, amministratori locali e imprenditori.
In un contesto in cui si decide l’allocazione di ingenti fondi pubblici e si definiscono nomine e appalti, la criminalità organizzata si configura dunque principalmente come «criminalità dei potenti», con i tipici reati dei colletti bianchi. Anche se l’assenza di gruppi mafiosi radicati può indurre a un cauto ottimismo, la diffusione di pratiche corruttive e di cattiva amministrazione non è per nulla rassicurante. Si tratta infatti di reati particolarmente difficili da colpire sul piano investigativo e giudiziario. A volte, riferiscono alcuni magistrati, diversamente da quel che accade per i reati di mafia, gli imbrogli ai danni della pubblica amministrazione sono talmente ben orchestrati da risultare impermeabili a qualunque tentativo di attacco da parte della magistratura.
Anche se l’assenza di gruppi mafiosi radicati può indurre a un cauto ottimismo, la diffusione di pratiche corruttive e di cattiva amministrazione non è per nulla rassicurante
La partita che si gioca intorno al riassetto demografico, amministrativo ed economico in corso non lascia indifferenti le poche e grandi famiglie che a Catanzaro rivestono un ruolo politico-imprenditoriale di primo piano. La città è in rapido movimento e con essa lo sono anche gli interessi che intorno a questo riequilibro ruotano. Com’è facile intuire, le imminenti elezioni amministrative rappresentano uno snodo molto importante per i futuri assetti di potere della città. Del resto, questa non è un’elezione di routine visto che, in un modo o nell’altro, con essa si chiuderà la lunga stagione politico-amministrativa che ha visto protagonista Sergio Abramo. A lungo esponente di Forza Italia, appartenente a una delle famiglie politico-imprenditoriali di spicco della città, Abramo ha infatti ricoperto la carica di sindaco per quasi un ventennio (dal 1997 al 2005 e dal 2012 a oggi).
Malgrado la sua longevità politica, questo sindaco di lungo corso lascia un centrodestra diviso e lacerato, incapace di agglutinare attorno a un solo candidato, come solitamente accadeva, il sostegno dei gruppi politico-imprenditoriali che contano. Le divisioni che si leggono in filigrana nel passare in rassegna i candidati sindaco di centrodestra e le numerose e affollate liste di candidati consiglieri possono dunque essere intese come il riflesso di fratture più profonde che dividono le élites cittadine. Un segno evidente di questo sfilacciamento politico è dato dalla candidatura di Valerio Donato, avvocato e professore universitario, da sempre vicino all’area politico-culturale della sinistra, che in questa tornata elettorale si pone a capo di una coalizione di dieci liste, tra cui quelle della Lega e di Forza Italia (che si presentano però senza simboli ufficiali).
Sul piano più propriamente politico, questa divisione è anche una reazione – molto simile a una resa dei conti – alla debacle subita dal ceto politico cittadino in occasione delle elezioni regionali dell’ottobre scorso, nelle quali un solo esponente catanzarese (della Lega e di Catanzaro Lido) è riuscito a entrare nel consiglio regionale. La conseguenza è che la città non è mai risultata così politicamente isolata rispetto ai gruppi politici e di potere delle altre principali città calabresi, prima tra tutte Cosenza. Un centrodestra frammentato e travagliato dalle lotte intestine facilita la vita al candidato unitario dello schieramento di centrosinistra, Nicola Fiorita, che aveva già tentato l’impresa cinque anni fa ponendosi a capo di una coalizione civica di sinistra. Ora Fiorita ci riprova, questa volta non più da outsider che «sfida» i partiti e le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra, ma come esponente di punta di un’alleanza che tiene insieme l’esperienza civica di cinque anni prima, quella tra Pd e M5s. Il 12 giugno si vota e, quasi sicuramente, il 26 si terrà il ballottaggio. La partita è aperta.
Chi uscirà vincitore dalle urne sarà chiamato a intervenire sulle tumultuose trasformazioni urbane, economiche e sociali pocanzi richiamate. Dovrà farlo con molto impegno e una buona dose di fantasia, senza la quale sarà difficile sopperire alla limitatezza dei mezzi a disposizione dei sindaci, specie del Mezzogiorno, in perenne lotta con bilanci che rasentano il dissesto e apparati tecnico-amministrativi invecchiati e decimati. Il nuovo sindaco dovrà avere anche la capacità di tenere la barra dritta, per evitare di naufragare nel mare agitato delle correnti, dei personalismi e dei particolarismi degli interessi che hanno generato le 23 liste e gli oltre 700 candidati che si contendono i 32 posti in consiglio comunale.
Stando così le cose, non resta che sperare che le ingenti risorse del Pnrr, che i comuni saranno chiamati a gestire, possano essere il trespolo dal quale la malinconica aquila catanzarese possa nuovamente spiccare il volo.