I risultati ufficiali delle elezioni parlamentari che si sono tenute domenica 15 maggio in Libano sono stati diffusi nella giornata di martedì 17. Pur tenendo conto di quanto sia complicato il sistema elettorale libanese, maggioritario con quote proporzionali all’interno di una rigida ripartizione su base confessionale, è già possibile individuare la notizia politica più rilevante. Secondo i dati comunicati dal ministero dell’Interno, infatti, nessuna coalizione ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi.
Non si tratta di una novità per la politica libanese, estremamente frammentata e ostaggio del sistema partitico. A causa del sistema confessionale previsto dalla Costituzione, le varie comunità religiose riconosciute dallo Stato e i partiti che le rappresentano hanno diritto a una quota fissa di seggi in Parlamento basata da un lato su una complessa organizzazione dei collegi elettorali e dall’altro su dati demografici ormai scollegati dalla realtà.
Alle precedenti elezioni, che si erano svolte nel 2018, la maggioranza era andata alla coalizione chiamata Alleanza dell’8 marzo. Lo schieramento, guidato dai partiti sciiti Hezbollah e Amal e dalla Corrente patriottica libera del presidente della Repubblica Michel Aoun, aveva ottenuto 71 parlamentari su 128, risultando decisiva per la formazione dei vari governi che si sono succeduti da allora. Secondo le stime del quotidiano libanese «L’Orient-Le Jour», a distanza di quattro anni, la coalizione, che guarda con favore all’Iran, si è fermata a 58 seggi.
Eppure, a leggere e ascoltare le dichiarazioni dei singoli partiti, sembra che tutti abbiano vinto. A partire da Hezbollah, considerato il grande sconfitto di questa tornata elettorale, ma che in realtà ha conservato i suoi 13 seggi in Parlamento, rimanendo come sempre saldo nelle sue roccaforti a sud. Se l’altro partito sciita, Amal, guidato dallo storico leader ottantaquattrenne Nabih Berri, è sceso da 17 a 15 parlamentari ma ha globalmente retto, è invece evidente il crollo dei cristiani della Corrente patriottica libera, passata da 29 a 17 rappresentanti. Il nuovo partito di maggioranza relativa, quindi, sono le Forze libanesi di Samir Geagea, espressione della destra cristiano-maronita. Il movimento, sostenuto dall’Arabia Saudita in funzione anti-iraniana, ha ottenuto 19 dei 64 seggi riservati ai cristiani in Parlamento, confermando da un lato la propria crescente influenza nella politica libanese e dall’altra la spaccatura in seno alla comunità cristiana libanese. Nonostante l’evidente crescita, nemmeno la coalizione Alleanza del 14 marzo, che oltre alle Forze può contare anche sul Movimento futuro dell’ex premier Saad Hariri, sulle Falangi della dinastia Gemayel e sui drusi del Partito socialista progressista, ha oggi la maggioranza assoluta.
In questo quadro, la comunità sunnita è finita ai margini della scena politica, probabilmente a causa dell’assenza di una figura coesiva come l’ex premier Saad Hariri, ritiratosi dalla vita politica nei mesi scorsi dopo esser stato per anni un protetto dell’Arabia Saudita per poi trovarsi paradossalmente a governare grazie al decisivo sostegno di Hezbollah. La comunità ha espresso un voto frammentato nelle diverse località, mentre in alcune aree, su indicazione dello stesso Hariri, il boicottaggio è apparso massiccio: nel quartiere di Tariq el Jdideh sono state montate delle piscine dove ragazzi hanno fatto il bagno in segno di disinteresse nei confronti delle urne.
In attesa di capire quali alleanze tattiche si formeranno e dove si collocheranno gli indipendenti, spicca il risultato dei candidati sostenuti dai gruppi legati alle proteste antigovernative cominciate nel 2019, capaci di ottenere 13 seggi. Decisivo in questo senso è stato il voto degli emigrati libanesi, che rappresentano una forza elettorale sempre più rilevante. Oggi sono circa 15 milioni i libanesi della diaspora, quasi il triplo rispetto ai residenti in patria. Da quando la legge elettorale è stata modificata nel 2017, i libanesi all’estero possono votare su tutti e 128 i rappresentanti del Parlamento, a differenza di quanto accadeva fino a cinque anni fa, quando esistevano 6 seggi riservati ai candidati all’estero.
È stato decisivo il voto degli emigrati libanesi, che rappresentano una forza elettorale sempre più rilevante. Oggi sono circa 15 milioni i libanesi della diaspora, quasi il triplo rispetto ai residenti in patria
Insomma alla luce di questi risultati, emerge una prima certezza: formare un governo non sarà semplice. In base al sistema di condivisione del potere su base confessionale in vigore in Libano, il primo ministro dev'essere un sunnita, ma oggi manca del tutto una figura capace di guidare la comunità. Najib Mikati, primo ministro da settembre 2021, aveva deciso di non candidarsi e persino il Movimento Futuro, il primo partito sunnita, non ha espresso nessun candidato. A ottobre, inoltre, il Parlamento dovrà anche scegliere un presidente che prenda il posto di Michel Aoun, arrivato al termine del suo mandato. Vista l'incertezza, potrebbero volerci mesi per un accordo per la formazione di un nuovo governo.
Tuttavia, il Libano non ha tempo da perdere, perché il fallimento del sistema finanziario e bancario sta trascinando a fondo l’intera popolazione. Dal 2019, il Libano ha vissuto un tracollo senza precedenti, passato anche per il default del marzo 2020 per il mancato pagamento di prestiti per 1,2 miliardi, la pandemia e l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 che ha cambiato il volto della capitale. Nel giro di tre anni, la lira libanese ha abbandonato il cambio fisso col dollaro statunitense, che era stabile da tempo a 1.500 lire, e ha perso oltre il 90% il suo valore. Oggi l’inflazione è al 138% e l’indice dei prezzi alimentari segna un aumento pari al 557%. Nello stesso periodo, gli stipendi sono rimasti invariati, e se nel 2019 il salario minimo si avvicinava ai 500 dollari, oggi non raggiunge i 60.
Secondo le stime più recenti pubblicate dalle Nazioni unite, il tasso di disoccupazione oggi supera il 40%, mentre l’80% della popolazione si trova sotto la soglia di povertà. Sono numeri aggravati dalla presenza nel Paese di un milione e mezzo di rifugiati siriani, 500.000 palestinesi, centinaia di migliaia di iracheni e un numero difficile da calcolare di lavoratori e lavoratrici invisibili, quelli della cosiddetta kafala. Il tutto su una popolazione residente di 4 milioni di persone.
Seguendo una tendenza globale, la situazione è ulteriormente peggiorata con l’invasione russa dell’Ucraina. I Paesi del Medio Oriente e del Nordafrica, infatti, sono i più grandi importatori di grano al mondo e l’80 per cento del frumento necessario alla produzione del pane, elemento chiave della dieta dei più poveri, proviene proprio da Mosca e Kiev. Il Libano, per esempio, importa il 60 per cento del grano dall’Ucraina. La crisi alimentare e il fallimento del sistema agricolo nazionale si vanno ad aggiungere a una lunga lista di situazioni insostenibili. In particolare, il collasso dell’agricoltura ha radici lontane, ma la situazione è precipitata negli ultimi mesi. Il sistema agricolo libanese, famoso per le produzioni di alta qualità della valle della Bekaa, è in difficoltà almeno dal 2012, quando a causa della guerra in Siria si chiuse la rotta commerciale che passava da Damasco e che consentiva a Beirut di rifornire tutta la regione. A causa del peggioramento delle condizioni climatiche e una sempre crescente concentrazione dei terreni in poche mani, la ricchezza agricola libanese era già stata ridotta in modo significativo. Negli ultimi mesi, il colpo di grazia è arrivato dalla crisi monetaria e del prezzo dei carburanti: il costo del trasporto dalla Bekaa ai supermercati libanesi è diventato insostenibile, al punto che oggi la produzione locale è fallita, sostituita interamente dalle importazioni.
Il fatto che la coalizione guidata da Hezbollah abbia perso la maggioranza in Parlamento dovrebbe essere una buona notizia. Eppure, l’assenza di una maggioranza non è stata presa bene dai mercati
Secondo alcuni osservatori, soprattutto occidentali, il fatto che la coalizione guidata da Hezbollah abbia perso la maggioranza in Parlamento è una buona notizia perché il partito sciita è considerato il principale responsabile dell’immobilismo politico degli ultimi anni. Eppure, l’assenza di una maggioranza non è stata presa bene dai mercati: il prezzo della benzina ha ricominciato a correre, mentre la lira libanese si è avvicinata a un nuovo minimo, scambiando a 29.000 lire per ogni dollaro.
La ragione di questa reazione negativa è dettata dal fatto che, in assenza di una riforma generale del sistema, ogni cambiamento è pressoché impossibile. Il cuore della politica libanese negli ultimi quindici anni si è retta su un patto stipulato tra Hariri e il governatore della Banca centrale, Riad Salameh, che ha gestito le risorse e le finanze del Paese in modo disastroso. Parallelamente, Hezbollah ha lasciato ad Hariri e ai suoi partner carta bianca per governare il Paese, assumendo in cambio di questo passo indietro un controllo sempre maggiore delle politiche di sicurezza.
Tuttavia, se da un lato i principali colpevoli del disastro libanese vanno individuati nella classe dirigente del Paese e nei vicini interessati a sfruttare la crisi, va detto che neppure la comunità internazionale può dirsi esente da responsabilità. Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita ha rafforzato la propria presenza in Libano come punto di riferimento dei sunniti, tanto in funzione anti-turca che in proiezione anti-iraniana. Con l’elezione di Aoun alla presidenza nel 2016, sostenuto dai partiti sciiti, il rapporto tra Beirut e Riad è costantemente peggiorato, fino ad arrivare all’interruzione delle relazioni diplomatiche bilaterali con lo scopo di isolare il Libano dal resto della regione.
Oggi Beirut non si può permettere nuove tensioni esterne, perché il collasso economico del Paese ha causato anche diserzioni di massa tra militari e servizi di sicurezza. Migliaia di lavoratori hanno infatti abbandonato il servizio perché la Lira libanese ha perso così tanto valore che oggi lo stipendio di un militare non supera i 65 dollari al mese. Se anche queste istituzioni, su cui il sistema libanese ha fatto grande affidamento per tenere in piedi uno Stato fragile, sono vicine al collasso, bisogna chiedersi come potranno essere affrontate le prossime turbolenze, non ultima proprio la formazione del nuovo esecutivo.
Come spesso è successo in passato, anche in questo voto non ci sono chiari vincitori, ma un sicuro sconfitto: il futuro del Paese.
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