Chi ha vinto, a Milano? La domanda non è retorica, anche se i numeri e le percentuali lo suggerirebbero. Che dopo due decenni la destra debba lasciare il posto al centrosinistra è un fatto. Ed è un fatto l’entusiasmo travolgente e sereno con cui lunedì, fino a notte, i milanesi hanno accolto e “sancito” un passaggio che potrebbe esser d’epoca, e non solo per la città. Eppure la domanda va posta: chi ha vinto, a Milano?
Prima ancora del ballottaggio, quando però già si avvertiva un “vento nuovo”, qualcuno ha azzardato una risposta: la vittoria di Giuliano Pisapia sta tutta nella sconfitta di Letizia Moratti, e del suo schieramento. L’ipotesi ha l’aria d’essere accorta e realistica: berlusconismo e leghismo ne hanno combinate tante, a Milano e in Italia, che hanno finito per stancare persino i loro elettori. Se così fosse accaduto, il voto milanese non esprimerebbe che la crisi della destra. Il centrosinistra ne avrebbe solo approfittato, e dunque a Milano non ci sarebbe una parte davvero vittoriosa, ma solo una perdente.
Fondata o infondata che sia, questa lettura del voto ha un significato politico scoperto: non c’è niente di nuovo nel centrosinistra, né un vento impetuoso né una brezza sostenuta. Dunque, si può procedere indisturbati nella ricerca di alleanze più o meno accorte e realistiche, appunto. Si tratta della stessa “ricerca” che, non molti mesi fa, ancora portava a suggerire al centrosinistra la candidatura di Gabriele Albertini come soluzione ottimale. Milano è senza rimedio una città moderata, si diceva, e si intendeva di destra. Per vincere, occorre mimetizzarsi e adattarsi. Insomma, occorre farsene una ragione, e consegnarsi mani e piedi, per non dir della testa e del cuore, a un ex nemico tanto di buon carattere da darci una mano. Sembrava molto intelligente, la prospettiva. La sosteneva il più intelligente fra i politici del Nord, come lui stesso pensa di sé. Il quale politico, alla vigilia del ballottaggio e con uguale intelligenza, ha sostenuto che, con Albertini al posto di Pisapia, si sarebbe vinto al primo turno.
Ma lasciamo perdere i troppo intelligenti, e torniamo all’ipotesi che non abbia vinto il centrosinistra, ma abbia perso la destra. Ebbene, chi ha partecipato non solo alla campagna elettorale, ma anche a quella per le primarie, sa che si tratta di un’idiozia (sia detto con tutto il rispetto). Sa cioè che, mese dopo mese, per un anno intero un numero crescente di cittadini s’è assunto senza mediazioni l’impegno di vincere. E lo ha fatto non a causa d’una (ancora lontana) crisi della destra, ma perché voleva, pretendeva che la città tornasse a essere quello che è stata a lungo: aperta, coraggiosa, propositiva.
Certo nelle prossime settimane ci sarà chi, per mestiere o per tornaconto politico, analizzerà il voto, e lo leggerà per così dire scientificamente. Ma niente potrà valere quanto l’aver visto rinascere quello che una volta si chiamava impegno. Niente potrà valere quanto l’aver visto le facce degli uomini e delle donne di ogni età che, sempre più numerosi, prendevano parte alla campagna, e alla formulazione dei programmi. Non c’era retorica, e non c’era ideologia, su quelle facce. C’era invece una sorprendente certezza: ce la faremo. È bastato questo, per farcela poi davvero? Forse no. Ma questo è stato fondamentale. Per vent’anni l’immaginario (non solo) politico dei milanesi è stato egemonizzato dalla destra, da questa destra impresentabile. E per vent’anni sia la politica sia la cultura del centrosinistra hanno rincorso il loro avversario, cercando di batterlo con il suo stesso linguaggio. Poi è accaduto che si scegliesse una strada nuova, o forse antica: quella di non vergognarsi di sé, e di proporsi alla città con il proprio volto, le proprie parole, le proprie scelte. S’è vinto, con buona pace degli intelligenti. E dalla nostra vittoria è venuta la sconfitta degli altri. Ora si tratta di ricordarselo.
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