La conclusione della XVIII Legislatura è stata tanto ordinata dal punto di vista costituzionale, quanto convulsa dal punto di vista politico.

Il presidente della Repubblica aveva lasciato intendere senza possibilità di equivoci che il governo Draghi, nella composizione originaria, sarebbe stato l’ultimo della legislatura: una composizione più ristretta avrebbe posto un problema di legittimazione proprio alla fine della legislatura, con evidenti ricadute sul dibattito pre-elettorale.

Lo stesso Draghi ne era tanto convinto da dichiarare il 20 luglio al Senato: “In questi mesi, l’unità nazionale è stata la miglior garanzia della legittimità democratica di questo esecutivo e della sua efficacia. Ritengo che un presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile. Questo presupposto è ancora più importante in un contesto di emergenza, in cui il governo deve prendere decisioni che incidono profondamente sulla vita degli italiani”.

A partire dal 2018 il Parlamento ha espresso un’offerta di varianti populiste forse unica al mondo per ampiezza. E tutte si sono prima o poi imbattute in qualche ostacolo insormontabile

Ecco perché non poteva esserci un Draghi bis a formato ridotto. Lo hanno confermato i comportamenti costituzionali del presidente: il rinvio del governo alle Camere a seguito della rassegnazione delle dimissioni del presidente del Consiglio dopo il ritiro della fiducia da parte del Movimento 5 Stelle, la successiva “presa d’atto” (e non accettazione) delle sue dimissioni a seguito dell’approvazione dell’odg Casini di sostegno al governo Draghi solo da parte del centrosinistra, con uscita dall’aula dei partiti del centrodestra, nonché soprattutto la scelta di sciogliere senz’altro le Camere. Una scelta che il presidente sicuramente non avrebbe voluto fare, ma che, constatata l’impossibilità di terminare la legislatura alla scadenza naturale, deve essergli parsa oggettivamente inevitabile. Si poneva a quel punto un delicato problema di tempi, posta l’esigenza di far approvare la legge di bilancio dal nuovo Parlamento evitando l’esercizio provvisorio, ovvero il peggiore segnale per le istituzioni di una Repubblica quanto mai esposta in questa fase al giudizio dell’Unione e delle istituzioni internazionali in termini di capacità di rispettare gli impegni presi. Non restava che accelerare al massimo, e infatti si vota il 25 settembre.

La conclusione della legislatura è stata altrettanto convulsa dal punto di vista politico. In parte come risvolto della non prevista fermezza e rapidità con cui Draghi e Mattarella, nella ovvia diversità dei rispettivi ruoli, hanno gestito la crisi, e in parte per ragioni di più lungo periodo.

Ciò vale soprattutto per quei partiti che hanno tentennato troppo a lungo fra una posizione e quella opposta, illudendosi di poter utilizzare a proprio esclusivo vantaggio il tempo fatto perdere a tutti, ma in modo particolare agli italiani. Non funziona così: il tempo può non essere una risorsa, e chi lo utilizza male può anzi venire screditato perfino in un Paese di grandi commedianti. Alla fine, un dilettantismo intervallato da piccole furbate si è mostrato per quello che era.

Invece quanti hanno pensato di utilizzare il dichiaratamente momentaneo ritiro della fiducia del M5S per far saltare il banco, pur guidati da maggiore istinto politico, sono dovuti ricorrere a un congegno istituzionale anomalo. La scelta di uscire dall’aula, che non è mai un buon segno per chi la compie, tantomeno lo è quando viene da quanti hanno sempre sbandierato il “ridare la voce al popolo”, e che, pensando di non assumerne la responsabilità, hanno rinunciato a esprimersi al momento del voto.

Le correnti di partito e i movimenti che si rifanno alla tradizione democratica, a destra come a sinistra, non hanno approfittato dell’occasione per ridisegnare l’offerta politica

La crisi di governo e la conseguente fine della legislatura hanno espresso convulsioni politiche ancor più evidenti dal punto di vista sistemico. Si era stati facili profeti nel dire che la legislatura si sarebbe chiusa all’insegna della massima incertezza, poiché, sebbene il suo preludio autorizzasse ipotesi sulla tenuta della democrazia costituzionale più inquietanti di quanto si è poi visto, non per questo la classe politica e l’opinione pubblica qualificata (a partire dai giornalisti) hanno mostrato di apprendere che le regole democratiche vanno osservate, e se del caso aggiornate, come si fa con un patrimonio comune (rimando al mio saggio sul numero 2 del “Mulino”, Istituzioni e partiti verso la nuova legislatura).

Per i partiti e per i media, in molti casi un patrimonio comune semplicemente non esiste. In comune c’è solo un insieme di limiti, che bisogna rispettare anche quando non si capisce perché. Altrimenti non si capirebbe una grande occasione mancata della legislatura appena conclusa.

A partire dal 2018 il Parlamento ha espresso un’offerta di varianti populiste forse unica al mondo per ampiezza. E tutte si sono prima o poi imbattute in qualche ostacolo insormontabile, in parte per incapacità a svolgere funzioni di governo, talvolta peraltro rivendicate, in parte per il sopraggiungere di crisi, quali la pandemia e la guerra in Ucraina, che hanno modificato le agende politiche e le stesse aspettative dell’elettorato. Questi fallimenti erano già certificati dal sostegno parlamentare al governo Draghi, dall’ispirazione opposta a quella dei populisti.

Il punto è che i partiti, le correnti di partito e i movimenti che si rifanno alla tradizione democratica, a destra come a sinistra, non hanno approfittato dell’occasione per ridisegnare l’offerta politica. Non ne hanno approfittato per subalternità culturale al vento del populismo, che contagia tutti sul piano della comunicazione mediatica, e per calcoli di breve periodo. Costoro hanno dunque continuato a esprimere una tradizione democratica, ma senza prepararne il futuro, in alternativa all’ormai lungo pendolare fra tecnocrazia e populismo.