Dopo una campagna alquanto polarizzata, l’ironia della sorte vuole che siano i britannici (con un piede già fuori dall’Unione europea) ad aprire le danze. Ma cosa dobbiamo aspettarci dalle urne europee? Questo intervento non si avventura in previsioni. Da diverse settimane molte inchieste segnalano grande indecisione in una parte consistente dell’elettorato. In ogni caso, tre aspetti sembrano importanti da monitorare, i primi due su scala europea, il terzo – soprattutto, ma non solo – per il nostro Paese.
1) Fin dalle prime elezioni del 1979, il voto europeo viene considerato “di secondo ordine” e attrae meno persone alle urne, con una differenza rispetto alle precedenti elezioni politiche di circa 25 punti percentuali (e ancor più in alcuni Paesi dell’Est). Dal 63% di affluenza nel 1979, si è arrivati al 43% nel 2009 e 2014. La polarizzazione della campagna elettorale potrebbe però riuscire laddove il sistema degli Spitzenkandidat – introdotto cinque anni fa anche per avvicinare Bruxelles ai cittadini, ma già oggi messo in discussione – ha sostanzialmente fallito. Se i tanti elettori tradizionalmente poco interessati al voto europeo si sentiranno chiamati in causa, per la prima volta vi sarà un’inversione di tendenza al calo della partecipazione.
Da diversi anni gli esperti parlano di una politicizzazione della questione europea. Nel Regno Unito, dove la salienza politica dell’Europa ha radici più profonde, la partecipazione al referendum sulla Brexit nel 2016 superò quella delle elezioni politiche dell’anno prima. È sempre complesso interpretare cosa stia dietro al non voto (sfiducia, protesta, disinteresse, ma anche compiacenza). Ma se l’ascesa delle forze anti-establishment si accompagnerà a un aumento della partecipazione, il voto europeo potrebbe diventare di “primo ordine”. Proprio come si annuncia oltre Manica, se gli elettori premieranno davvero il Brexit party fondato da Nigel Farage.
2) Gli equilibri politici del Parlamento europeo (e i nuovi vertici istituzionali). Le elezioni saranno il primo fondamentale passo del risiko delle cariche che, dalla Commissione al vertice della Bce, andrà a regime a novembre. Come noto, il gioco delle cariche è tradizionalmente in mano ai principali gruppi parlamentari dell’establishment europeo: popolare, socialista e – in misura minore – liberale. Nell’emiciclo di Bruxelles, in questi anni i gruppi hanno fortemente incrementato la loro coesione politica: le differenze di prospettiva politica di colleghi che vengono da economie e realtà geopolitiche anche molto diverse sono state ricondotte a sintesi dalla necessità di influire sulle decisioni di una camera sempre più importante nell’edificio istituzionale europeo.
Nel confronto tra gruppi, invece, si sono affermate due dinamiche di coalizione prevalenti, una di centrodestra – a leadership Ppe – sui temi monetari e del mercato unico; l’altra maggiormente a sinistra – a guida Pse – su questioni di giustizia, affari interni e immigrazione. A fare da formazione pivot in entrambe le coalizioni hanno agito i più europeisti, i liberali dell’Alde, nei quali forse confluirà il partito di Macron, avversario numero uno dei sovranisti. Riusciranno questi ultimi a spezzare questi equilibri? Il ventilato successo populista, dopo il fondamentale vaglio degli elettori, potrà portare a un nuovo scenario solo se i leader delle varie formazioni riusciranno a trovare l’accordo per superare le tante differenze che li dividono, a partire dalla formazione di un unico gruppo parlamentare.
Nell’attuale legislatura i partiti euroscettici si distribuiscono in almeno quattro degli otto gruppi esistenti. Molti di questi partiti hanno esultato dopo il referendum sulla Brexit, salvo poi moderare i propri propositi, soprattutto quando sono andati al governo (come da noi). In questi mesi si è fatto un gran parlare di un nuovo mega-gruppo che possa sfidare il duopolio popolare-socialista. Per formare un gruppo (influente e duraturo) occorre combinare affinità ideologica, convenienza politica (più grande è un gruppo, maggiori sono le risorse finanziarie, i tempi di parola, le posizioni chiave nelle commissioni) e, last but not least, la tutela dell’immagine che il gruppo riesce a trasmettere al livello politico che rimane “di primo ordine” nella mente degli elettori, cioè quello nazionale (come testimoniano le polemiche di questi mesi sugli alleati scomodi a Bruxelles). Oggi non è affatto scontato che il trend di maggiore coesione all’interno dei gruppi si consolidi ulteriormente. I potenziali alleati di Salvini nell’Enf (che sta per Europa delle nazioni e delle libertà) sono oggi uniti più dall’ostilità al mainstream europeista che da una posizione comune sulle tre crisi fondamentali che hanno attraversato l’Europa negli ultimi anni, cioè quella dell’eurozona, dei migranti e la minaccia russa. Ma se l’Efn potrà arrivare vicino agli 80 deputati, una minore coesione e un trasformismo “all’italiana” (con frequenti entrate e uscite di deputati) potranno essere considerati accettabili per sfidare gli attuali rapporti di forza, soprattutto se a questo gruppo se ne affiancheranno altri due più piccoli, eredi di quelli attuali (Efdd e Ecr), che possano portare vicino a 200 la variegata pattuglia sovranista.
3) Il fattore Salvini, quindi, oltre l’Italia. L’attenzione mediatica è tutta sul voto alla Lega: se il partito dovesse superare il 30% il leader sarà riuscito a navigare nel difficile equilibrio tra un profilo più catch-all, necessario per marginalizzare di Forza Italia alle elezioni politiche dello scorso anno e le posizioni più marcatamente identitarie e radicali degli ultimi mesi. Secondo il modello del ‘secondo ordine’, i partiti al governo tendono a perdere voti rispetto alle precedenti elezioni politiche (che li hanno premiati) quanto più ci si avvicina al punto intermedio del ciclo elettorale (cioè 2 anni o poco più dopo il voto politico, come nelle elezioni di mid-term americane). Infatti, la luna di miele con gli elettori tende ad esaurirsi dopo il primo anno di governo, che il governo Conte compirà proprio la settimana prossima. I tempi che viviamo non sono normali. Il dato più forte in possesso degli analisti riguarda la maggiore volatilità dell’elettorato e il progressivo scioglimento delle appartenenze politiche. È possibile che anche queste in elezioni – nonostante tutte le attese per un evento di portata dirompente – si confermi la validità del modello di “secondo ordine”. La politicizzazione dell’Europa è aumentata ovunque e per i partiti populisti, grazie alla promessa di mettere la volontà generale del popolo davanti a tutto, Bruxelles è un comodo capro espiatorio. Non è un referendum pro o contro l’Europa, ma la posta in gioco non è mai stata così alta.
[Qui tutto quello che c’è da sapere sui gruppi politici al Parlamento europeo.]
[Il grafico con l’attuale configurazione dei seggi al Parlamento europeo è preso da Wikipedia.]
Riproduzione riservata