Non capita spesso di uscire dalla sala con la voglia di rientrarci all’istante, per riavvolgere il nastro del racconto che si è appena sviluppato sullo schermo. A me è successo con Vermiglio, l’ultimo lavoro di Maura Delpero, un film di grande rigore capace di «portare la poesia in immagini», secondo le parole usate a Venezia da Isabelle Huppert per premiare il film con il Leone d’Argento.

Sul finire della Seconda guerra mondiale un soldato siciliano trova riparo a Vermiglio, un piccolo borgo nel Trentino occidentale. È un disertore, arrivato nei boschi sulle pendici del Cevedale per riportare a casa un compagno ferito. Pur tra qualche diffidenza, la piccola comunità alpina accoglie Pietro, anche grazie al sostegno del maestro Cesare, guida morale del paese. La presenza del soldato finisce però per turbare gli equilibri dei Graziadei, la numerosa famiglia del maestro. Arrivano l’amore, un neonato inatteso, un matrimonio, fino al dramma che spingerà Lucia, la primogenita, ad attraversare il Paese in cerca di una ragione alla morte del marito.

Il film nasce da un sogno fatto dalla regista qualche mese dopo la morte del padre, in cui il genitore tornava nella casa della sua infanzia, a Vermiglio: «Aveva sei anni e due gambette da stambecco, mi sorrideva sdentato, portava questo film sotto il braccio: quattro stagioni nella vita della sua grande famiglia». Il film è la traduzione di quel sogno, «una storia di bambini e di adulti, tra morti e parti, delusioni e rinascite, del loro tenersi stretti nelle curve della vita, e da collettività farsi individui». Vermiglio è dunque un omaggio che Delpero tributa alla propria storia familiare, ripercorsa mescolando i ricordi giunti fino a lei con una buona dose di immaginazione, utile a colmare il vuoto che separa inevitabilmente ogni racconto familiare dalla vita reale vissuta da chi è venuto prima di noi.

Un film in cui i sogni si confrontano con le strutture familiari e le aspettative della comunità, in cui i desideri si scontrano con codici morali e regole religiose dai contorni punitivi

Vermiglio è un film felicemente stratificato, che guarda alla struttura del romanzo familiare per dare voce a temi diversi. Racconta la guerra senza mostrarla, perché il dramma del conflitto resta fuori campo e viene osservato solo attraverso le conseguenze che provoca nella mente dei soldati e in chi attende che a tornare sia un figlio, un padre, un marito. È un film sulla maternità come destino (la moglie del maestro, come pure la nonna della regista, partorirà dieci volte) e come spinta all’autodeterminazione (la vita di Lucia cambierà e la porterà a scegliere tra il paese di origine e la città). È, ancora, un film in cui i sogni si confrontano (spesso confliggendo) con le strutture familiari e le aspettative della comunità, in cui i desideri si scontrano con codici morali e regole religiose dai contorni punitivi.

La forma scelta da Delpero per vestire questo racconto di comunità è di grande rigore. Nelle scene che mostrano quattro stagioni della vita familiare dei Graziadei tutto è composto e misurato, in un grande equilibrio di toni e posture narrative. Il cinema che sceglie di raccontare il passato si confronta con la difficoltà di rendere verosimili ambienti, volti, costumi e dialoghi. Molti film di ambientazione storica risultano poco convincenti proprio per la scelta di modelli narrativi stereotipati, per l’adozione di recitazioni di taglio eccessivamente “cinematografico”, per una ricostruzione del mondo passato artefatta. Tutte cose che per magia non si verificano in Vermiglio. Le facce che popolano il film, risultato di un lunghissimo lavoro di casting, sono espressione della scelta della regista di entrare per quanto possibile nell’ambiente che sceglie di mostrare, aderendo alle storie di vita al centro del racconto. Per buona parte degli attori è la prima esperienza cinematografica; grazie a una perfetta conduzione della loro recitazione, regalano al film un tono e un colore che lo rendono straordinariamente convincente e onesto. I volti, un po’ fermi nel tempo, sono quelli che si incontrano ancora oggi nelle vallate trentine, con tratti somatici, espressioni e cadenze che difficilmente trovano spazio nel racconto cinematografico e televisivo nazionale.

Il film è parlato in dialetto solandro e le riflessioni sul dolore della guerra, sul mistero della morte, sulle regole della morale sono espresse nella lingua usata nelle osterie, alle fontane del paese e nei focolari domestici. Per dare corpo e credibilità alle azioni e ai pensieri della gente che popola quella parte di mondo, luoghi in cui ancora oggi il dialetto prevale sull’italiano, la scelta era pressoché obbligata. La decisione di dotare il film di una voce antica è una scelta di aderenza al mondo raccontato, ma è anche lo strumento per immergere lo spettatore nella musicalità che la parlata popolare riesce a restituire. Particolarmente efficaci, nella loro spontaneità, sono i pensieri pronunciati dai bambini, che puntellano il racconto come un coro greco, sussurrando verità e fornendo un punto di vista diretto e poetico sulla vita che scorre nelle terre alte.

Un film giocato tutto in sottrazione, poggiato su un linguaggio secco e pulito, sulla scelta di tempi sospesi e di continue piccole ellissi, utili a ripercorrere la vicenda familiare lungo quattro stagioni

Un altro dei rischi che Delpero scansa con disinvoltura è la messinscena cartolinesca della montagna, che di frequente accompagna i lavori finanziati dalle agenzie cinematografiche territoriali. L’ambiente è protagonista del film, ma è raccontato senza solennità, a partire dalla relazione che gli abitanti della piccola comunità montana stringono con la natura. Delpero ha girato in ambienti di grande suggestione dove la natura è imponente (la Val di Sole, la Val di Pejo, la Bassa Atesina), ma ha scelto di rendere l’ambiente parte integrante del racconto, evitando di ridurla a una cornice esotica e spettacolare della narrazione.

È un film giocato tutto in sottrazione, poggiato su un linguaggio secco e pulito, sulla scelta di tempi sospesi e di continue piccole ellissi, utili a ripercorrere la vicenda familiare lungo quattro stagioni. Il pensiero corre naturalmente al grande esempio del cinema di Olmi (L’albero degli zoccoli), ma i toni del racconto ricordano anche Il nastro bianco di Haneke o, per restare a un altro splendido lavoro italiano, Piccolo corpo di Laura Samani, anch’esso un viaggio femminile legato alla maternità in un mondo alpino di inizio Novecento.

Maura Delpero viene dal cinema indipendente. Ha capito di voler fare cinema affiancando un regista di grande sensibilità, Vittorio Moroni, in un bellissimo documentario sulla comunità bengalese in Italia (Le ferie di Licu). Ha mosso i primi passi nel cinema documentario, ed è una palestra che ben si nota nella sua capacità di seguire le storie con partecipato distacco. I due lavori che precedono Vermiglio sono entrambi legati alla maternità: il documentario Nadea e Sveta (2012) è il racconto della vita di due donne moldave che hanno lasciato la famiglia di origine per lavorare in Italia e raccogliere il denaro per dare un futuro ai propri figli; Maternal, premiato a Locarno nel 2019, è il racconto di una comunità di suore che in Argentina accoglie giovani madri in situazioni di difficoltà.

In Vermiglio la riflessione sulla maternità come momento di passaggio, spinta verso l’emancipazione e strumento di cambiamento, rappresenta una delle dimensioni centrali del racconto. Nel cinema di Delpero non mancano dunque gli elementi di continuità, ma con Vermiglio la solidità dell’impianto narrativo e la ricerca espressiva raggiungono un nuovo livello, anche grazie ai professionisti di grande rilievo coinvolti nella lavorazione. La grande raffinatezza visiva e compositiva è il frutto del contributo di Mikhail Krichman, già direttore della fotografia di alcuni tra i più importanti film russi degli ultimi quindici anni (da Silent Soul di Aleksej Fedorčenko ai lavori di Andrej Zvyagintsev). Vermiglio è costruito intorno a inquadrature pensate con cura, giocate spesso sull’alternanza tra campi lunghi e primi piani, su un accurato lavoro sul fuoricampo (spesso leggiamo sui volti dei protagonisti le reazioni a ciò che viene detto di loro), sulla scelta di angolature e punti di osservazione non ordinari, a partire da quelli che i bambini posano sulle cose dei grandi. Il tutto calato in una luce dalla dominante azzurra, che lavora sapientemente coi chiaroscuri e con le fonti luminose naturali.

Un lavoro importante è stato fatto anche sul sonoro, capace di restituire con cura le parole sospese e le frasi a mezza voce che danno il timbro al film. Riprodotto in dettaglio, il paesaggio acustico dell’ambiente alpino regala tridimensionalità al racconto e lo rende ancora più reale. A ciò contribuisce anche l’ampio utilizzo della musica popolare alpina, che scandisce il ritmo dei riti della comunità vermigliana e trova ampio spazio nel film. Del resto, il piccolo paese della Val di Sole è ancora custode di una tradizione canora popolare di grande importanza, oggi difesa dai Cantori da Verméi, un gruppo nato dietro lo stimolo del maestro elementare Alberto Delpero e dell’etnomusicologo Renato Morelli, uniti dal desiderio di riscoprire il repertorio polivocale delle genti di montagna, salvandolo dalla standardizzazione alimentata dal modello novecentesco della coralità alpina. Sono proprio i Cantori da Verméi a prestare la propria voce nel film, nei frequenti momenti in cui gli eventi della comunità (celebrazioni religiose, feste, matrimoni, funerali) sono accompagnati da musica e canti. Musica che nel film ha un valore significativo e non solo di commento, essendo lo strumento principe con cui viene raccontata la tensione del maestro Cesare verso la bellezza e, di conseguenza, lo scarto che si produce tra l’umile realtà in cui vive e gli orizzonti ideali di un uomo di cultura alpino. Quando non sono quelle di Bach, Chopin o Vivaldi, le note che attraversano il film sono opera di Matteo Franceschini, affermato compositore italiano già premiato con un Leone d’Argento alla Biennale musica nel 2019.

Il film di Delpero è dunque il risultato di un felicissimo lavoro di equipe, guidato da una regista che mostra di aver trovato una grande maturità artistica. Pur seguendo i fili di diverse scelte di vita che prendono forma, è un lavoro molto organico e compatto, capace di muoversi con grande sensibilità tra il piano familiare e quello di comunità. Una comunità che al tempo stesso protegge e giudica, sostiene e condanna. Nel volgere di quattro stagioni si definiscono i destini dei ragazzi di casa Graziadei, frutto di percorsi di resistenza alle regole sociali, di reazioni ai modelli educativi del padre-maestro, alla negoziazione tra le spinte del desiderio e gli angusti spazi della morale religiosa. I giovani della famiglia sceglieranno la propria strada (la fuga in città, i voti religiosi, un futuro di studio, la ribellione), gli adulti vedranno confermato il proprio ruolo sociale e familiare: il padre con la propria irrisolta rigidità, sospesa tra la passione per la cultura e la rivendicazione del ruolo di indirizzo nelle scelte di casa, la madre chiusa nell’esercizio della propria funzione generatrice, ma portatrice di un’intelligenza emotiva di gran lunga superiore a quella del consorte.

In questo senso Vermiglio è, come lo ha definito la regista, «un paesaggio dell’anima, un “lessico famigliare” che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per mio padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese». È una storia che, lavorando sulle costrizioni psicologiche e sociali in cui si muovono gli abitanti di una piccola comunità alpina, attraversa un tempo personale per omaggiare una memoria collettiva.

La natura universale di un racconto in apparenza marginale è testimoniata dal grande successo di pubblico che il film sta avendo. Uscito inizialmente in 27 sale, ora è distribuito in 200 copie e vanta la miglior media spettatori/sala del botteghino. Dopo il successo del Leone d’Argento al Festival di Venezia, Vermiglio è stato scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar per il miglior film internazionale. Un traguardo di tutto rispetto per un film appartato, che sceglie forme di racconto poco battute dal cinema di largo consumo e predilige l’astrattezza ai toni accesi del mélo. Non sappiamo come proseguirà il viaggio del film nel mercato cinematografico internazionale. Dovesse proseguire nel suo grande successo, non ci sarebbe da stupirsene troppo. Sarebbe anzi il giusto riconoscimento per un film di rarefatta bellezza, capace di restituire allo spettatore in ogni scena la meraviglia dell’esperienza creativa.