Il confine fra razzismo e repressione. La breve esistenza ‒ meno di quattro mesi ‒ del presidio “No Borders”, al confine fra Ventimiglia e Mentone, ha portato alla luce le contraddizioni dell’Europa sulla questione dei migranti, così come la non-volontà dei suoi Stati membri a risolverla. Il campo era nato nei giorni successivi al 16 giugno del 2015. In quella data, un consistente gruppo di migranti ‒ in maggioranza eritrei, somali, sudanesi, ma anche molti siriani ‒ cui era stato negato l’ingresso in Francia decise di rifugiarsi sugli scogli antistanti la linea di confine fra i due Paesi, per evitare che la polizia italiana li prelevasse e li portasse a Ventimiglia, al centro di accoglienza della Croce Rossa.
Per capire le motivazioni e il valore di questo gesto di protesta bisogna vedere però cosa succede, ormai da vari anni, al confine fra Italia e Francia. Ciò che accade non si fonda su dichiarazioni ufficiali o leggi, ma si manifesta in una serie di micro-pratiche concrete. Le pratiche sono ciò che, più che qualunque trattato scritto, costruisce attualmente il confine fra i due Paesi. Esse si inseriscono negli spazi lasciati vuoti dalle legislazioni e dai trattati, che la volontà politica non è in grado ‒ o non vuole ‒ riempire. In maniera concreta, creano una sorta di non dichiarato “stato di eccezione” permanente, costruendo un confine “a inclusione differenziale” ‒ usando il concetto di Sandro Mezzadra ‒ fondato su pratiche razziste, sulla discriminazione e sulla sospensione dei diritti.
Ogni volta che un migrante arriva da Ventimiglia alla stazione di Menton Garavan ad accoglierlo ci sono una quindicina di agenti della polizia francese. Gli agenti salgono sul treno e lo controllano in maniera molto rapida ed estremamente selettiva: a essere interpellate sono soltanto ed esclusivamente le persone che presentano tratti somatici non “bianchi”. In altre parole, neri, arabi, saheliani, asiatici, chiunque non corrisponda all’idea di un’autoctonia europea. La routinaria operazione di controllo mette in atto una sorta di “razzismo metodologico”, coperto dal potere di discrezionalità che gli agenti possiedono nel fare il loro lavoro.
Chiunque non abbia documenti viene fatto scendere dal treno e portato alla stazione di polizia di Pont Saint Louis, in attesa di essere riportato in Italia. Nessuno viene però identificato, in quanto ciò comporterebbe la presa in carico di coloro che dichiarassero di voler chiedere asilo in Francia. In questa situazione, l’immigrato diventa effettivamente una “non persona”: egli non è identificato, ma riconosciuto in quanto non-identificato. È come se ufficialmente non esistesse, e neanche la sua espulsione, sulla carta, esiste. La stessa cosa sul lato italiano. La polizia italiana, quando riceve le persone respinte dai francesi, evita di avviare procedure identificative. I migranti vengono accompagnati al presidio della Croce Rossa, e lasciati poi liberi di provare a riattraversare il confine quando vorranno. Nessuno dei due Paesi vuole prenderseli in carico, e quindi quella che si gioca al confine è una lenta guerra di logoramento fra le due autorità frontaliere: chi dei due cede per primo perde, e deve tenerseli.
È in questa situazione di continue discriminazioni, incertezze e rimpalli che si inserisce la protesta dei migranti del 16 giugno. Dopo essere restati sugli scogli per qualche settimana, ricevendo aiuto e solidarietà da parte della Croce Rossa e di attivisti dei centri sociali di tutta la Liguria, i migranti si trasferiscono nella pineta antistante i Balzi Rossi, dove viene occupato l’ex ufficio del turismo e dove, grazie a donazioni, si allestiscono tende, bagni, cucine e spazi ricreativi. Nel presidio, gli attivisti organizzano un servizio di accoglienza, fornendo alloggio, vestiti, cibo, cure, indicazioni e suggerimenti sulle procedure legali e su come attraversare il confine. Il campo diventa un punto di riferimento, arrivando a coinvolgere più di un centinaio di persone al giorno.
Il 30 settembre, però, un’impressionate operazione di polizia e carabinieri ‒ centinaia di agenti in tenuta antisommossa ‒ procede allo sgombero e distruzione del campo. I migranti vengono portati alla Croce Rossa, gli attivisti identificati e denunciati. Tutto ciò che c’era nel campo è spazzato via dai mezzi della nettezza urbana del Comune di Ventimiglia. Tende, sedie, letti, coperte, vestiti, tavoli, piatti, medicine, docce: tutto ciò che era stato donato in quei mesi da gruppi di supporto e da privati cittadini viene distrutto. Il giorno dopo, nessuna traccia rimane dell’esistenza del presidio, se non i nastri della polizia che tengono sotto sequestro l’area della pineta, ormai completamente vuota.
Lo sgombero non pone però fine alla vicenda: in realtà tutto ricomincia da capo. Alla stazione e sulla statale continuano i controlli, e il rimpallo di persone fra Italia e Francia riprende come prima. Non è stata trovata una soluzione al destino di queste persone, e nessuno ha fatto nulla per risolvere la questione politica che ne sta dietro. Lo sgombero non ha risolto il problema, e viene da chiedersi se davvero ci sia la volontà di farlo. È stato solo la messa in scena di una politica migratoria che vuole chiudere i confini, così come la manifestazione di forza di uno Stato che non ammette alternative dal basso alle proprie politiche e (in)decisioni.
La distruzione di tutto ciò che c’era nel campo ‒ ma anche le ordinanze che vietano di dare cibo ai migranti, di assisterli o aiutarli ‒ si può leggere come la repressione egoistica e ipocrita delle solidarietà orizzontali, la volontà di negare qualsiasi possibilità di accoglienza e di cancellarne le tracce se per caso avviene. Gli Stati europei hanno deciso che non esiste la possibilità di accogliere tutti i migranti: di conseguenza, qualunque esperienza concreta che contraddica questo discorso dominante va cancellata, non solo politicamente, ma anche materialmente.
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