Nel corso degli ultimi tre decenni ho gettato tra i Raee (i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) o regalato ad amici un certo numero di telefonini, dai primi Ericsson con antenna agli ultimi smartphone irrecuperabili, incluse le rispettive batterie ad altissimo contenuto inquinante. Più diversi pc, tra cui un iMac colorato di fine anni Novanta (il primo iMac immesso sul mercato, nel 1998, con processore G3 e uno schermo da 14 pollici scarsi), che vorrei non avere regalato, e qualche portatile. Obsolescenza programmata, la chiamano. Sono invece ancora in mio possesso uno storico Macintosh 512K dell’85 e il mio terzo iPod, dopo i primi due scomparsi nel nulla, seconda generazione con 10 gb di memoria; la batteria si è infiacchita ma funziona. L’iPod ogni tanto lo utilizzo ancora.
Sono trascorsi vent’anni da quando, il 23 ottobre del 2001, Steve Jobs presentava al mondo un lettore musicale, che deluse la gran parte degli adepti della Mela («I still can't believe this! All this hype for something so ridiculous! Who cares about an MP3 player?»). Lo giudicarono superato ancora prima di averlo visto in vendita, niente di più e niente di meno di un lettore Mp3. L’idea stessa che Apple potesse buttarsi sul mercato musicale – il lettore era affiancato da iTunes come strumento di gestione dei dispositivi – sembrò a molti sbagliata.
«Con iPod, Apple ha inventato una categoria completamente nuova di lettori di musica digitale che ti permette di mettere in tasca la tua intera raccolta musicale e ascoltarla ovunque tu vada», recitava il comunicato stampa da Cupertino. 1000 brani da portare con sé di qualità pari a quella di un CD. Apple era ripartita sul mercato con l’iMac 1998 (il mio, appunto) e quella sembrava la strada giusta. Ma «il jukebox alimentato dal Mac», come lo chiamarono sul «New York Times», funzionò eccome. Nel corso di questo primo scorcio di secolo ci siamo abituati a dare per scontato che la musica possa essere completamente portabile, personalizzabile, smontabile, dalla creazione di playlist di ogni tipo agli orrendi skyp per saltabeccare in maniera schizofrenica da un brano all’altro.
Nel corso di questo primo scorcio di secolo ci siamo abituati a dare per scontato che la musica possa essere completamente portabile, personalizzabile, smontabile, con la creazione di playlist di ogni tipo
Chi è nato dopo la messa in commercio dell’iPod non ha, ovviamente, idea di che cosa abbia significato l’arrivo, con trent'anni di anticipo rispetto all'iPod, dei primi Walkman, lettori portatili giapponesi di audiocassette alimentati a pile con i quali al massimo potevi ascoltarti 90 minuti di musica. Siamo alla fine degli anni Settanta, e il tradizionale supporto in vinile domina la scena. A quel tempo la cassetta era, di fatto, l’unico supporto sul quale duplicare contenuti audio, se si escludono i grandi registratori a bobine per lo più per usi professionali, invidiatissimi da alcuni. Di solito tra amici ci si scambiavano dischi per registrarseli a vicenda, la qualità audio era pessima, anche se all’epoca veniva giudicata accettabile. L’arrivo del compact disc (il primo ad essere immesso sul mercato fu 52nd Street di Billy Joel, nel 1982; il mio primo acquisto fu invece Piano One, una compilation ancora oggi splendida con otto tracce, opera di musicisti del calibro di Joachim Kuhn, Eddie Jobson e Ryuichi Sakamoto) si rivelò una rivoluzione. Eravamo ben lontani dalle nostalgie esoteriche che da qualche anno discettano sulla incomparabile ampiezza del suono di un vinile rispetto alla piattezza del suono digitale: a noi potere ascoltare la nostra musica in lungo e in largo per più di un’ora (consecutivamente!) senza i fastidiosi scricchiolii di dischi fatti girare sul piatto centinaia di volte sembrava un sogno.
La disponibilità limitata di musica (d’accordo, c’era la radio, ma questa è un’altra storia) portava con sé il vantaggio di trovarsi costretti a selezionare. La musica la dovevi pagare, che tu volessi un vinile, prima, o un cd, poi
Tutto questo oggi sembra, ed è, archeologia. Eppure la disponibilità limitata di musica (d’accordo, c’era la radio, ma questa è un’altra storia) portava con sé il vantaggio di trovarsi costretti a selezionare. La musica la dovevi pagare, che tu volessi un vinile, prima, o un cd, poi. E di solito il budget era limitato, per quanto ci si potesse sbilanciare spendendo lì e non in altri svaghi (la moda degli spritz era di là da venire). La comparsa dell’iPod ha invece provocato una improvvisa accelerazione nella messa a disposizione di un quantitativo pressoché illimitato di brani di ogni tipo. Ma non ci è bastato ancora: così, grazie alla connessione internet sempre più rapida e a prezzi sempre più bassi, è arrivata Spotify, nata nel 2008 per contrastare la pirateria che passava da piattaforme tipo Napster, che dava la possibilità di scaricare la propria musica preferita senza acquistare i dischi e quindi senza pagare i diritti d’autore.
A vent’anni dalla messa in commercio del primo iPod credo valga la pena di chiedersi se siamo stati capaci di sfruttare appieno tutto questo ben di Dio. Se siamo ancora in grado di «sentire» la musica o se, alla fine, non rischiamo di restarne sopraffatti. Abbiamo sia la qualità dell’ascolto – indubbia: l’elettronica da consumo ci ha messo a disposizione macchine più che decenti anche a poche centinaia di euro – e, come si è visto, la quantità. Sapremo riacquistare la capacità di ascolto? Anche questo, mi pare, dipende soprattutto da noi.
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