A metà gennaio a Caracas quasi non restano tracce della mattanza della primavera scorsa, quando la polizia e l’esercito hanno disperso i cortei contro Maduro e, disperdendoli, hanno ucciso decine di persone. C’è solo qualche pozza di vernice secca sull’asfalto – la «Resistencia» degli antichavisti rispondeva al gas e ai proiettili di gomma dell’esercito con gavettoni di vernice e merda – e sui muri qualche rara scritta contro Chávez, contro la Mud («Mesa de la Unidad Democrática», la coalizione antigovernativa), contro la guardia nazionale bolivarista («Gnb asesinos»), e inviti a non votare nessuno, anzi preghiere addirittura («No votes, te lo suplico»), perché governo e opposizione alla fine sono la stessa cosa. Sei mesi fa, la superstrada Francisco Fajardo che attraversa la città da Est a Ovest la si era vista in televisione brulicante di gente che sventolava le bandiere del Venezuela e quelle giallo-nere del principale partito d’opposizione, Primero Justicia; e le cariche, i lacrimogeni, il ragazzino che suonava il suo violino e se lo vedeva requisito e fatto a pezzi dagli agenti motociclisti della Guardia Nazionale (e ne era nata una mitologia planetaria, una gara di solidarietà, come si dice, coronata dalla consegna in diretta Facebook di un nuovo violino al «Violinista della libertà» Willy Arteaga). Oggi c’è il solito traffico brutale di motorini, auto da rottamare e Suv, ma lungo la carreggiata a quattro corsie anche biciclette e gente a piedi che trascina carretti pieni di cianfrusaglie, rischiando la vita.

A parte questi disperati, uguali a tutti gli altri disperati non automuniti del Terzo Mondo, i caraqueñi vanno in moto o in macchina, non camminano, anche perché il Venezuela galleggia sul petrolio, e un pieno di benzina costa intorno ai 300 bolívares, che è come dire quasi gratis: meno di una bottiglietta d’acqua da 33 cc, meno di un pacchetto di caramelle, meno di qualsiasi cosa si possa acquistare in un qualsiasi negozio. «Tecnicamente», mi spiega puntiglioso il taxista che mi ha prelevato a casa e mi depositerà dopo un imbottigliamento durato mezz’ora a un paio di chilometri di distanza, «tecnicamente è più conveniente fare il giro della tangenziale a ottanta all’ora, fino a esaurire il serbatoio, che starsene a casa a leggere un libro con la luce accesa Tecnicamente costa di più».

Indifferente agli effetti macroeconomici di un simile calmiere sul prezzo della benzina, il visitatore di passaggio si vede intorno le conseguenze pratiche di questa decisione: a parte il traffico infernale, una densità di Range Rover e di Hummer come nemmeno a Montecarlo, e banchi di smog ad altezza occhi da far concorrenza alla Cina, se non fosse per la pioggia che lo diluisce e i venti atlantici che ogni tanto lo disperdono; e soprattutto nessun investimento sul trasporto pubblico, niente autobus e niente piste ciclabili perché tutti girano in macchina. O quasi tutti. Gli studenti poveri si siedono all’uscita del campus e piden cola, cioè a ogni macchina che passa sollevano un cartello con sopra scritta a penna la loro destinazione, sperando in un’anima buona che gli dia un passaggio. E gli abitanti delle favelas, arrampicate sulle colline, non hanno la macchina perché non hanno bisogno di lasciare le favelas, non hanno niente da fare in città: aspettano e basta.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 1/18, pp. 5-22. Il fascicolo è acquistabile qui]