La difficoltà dell’apparato industriale a recuperare produttività e competitività internazionale ha spinto il governo a puntare sui beni culturali come volano della ripresa economica. Ritenuti fonti inesauribili di reddito, i musei statali sono oggetto di interventi volti a promuoverne la profittabilità senza troppi scrupoli conservativi. Aziendalistica appare la modalità di gestione preferita dai vertici politici di turno, potendo contare sulla facile approvazione mediatica nella denuncia delle (procurate/tollerate) inefficienze della pubblica amministrazione. La subordinazione del patrimonio museale alle esigenze di sviluppo dell’imprenditoria turistica e dell’indotto commerciale è il tratto comune delle misure varate in modo sbrigativo nella XVII legislatura.
La prima è il passaggio delle competenze in materia di turismo dall’omonimo dipartimento della Presidenza del Consiglio al Ministero per i beni e le attività culturali che cambia denominazione in Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact). Disposto dal Governo Letta-Bray in una sede impropria come la conversione del decreto-legge 43/2013 sul «rilancio dell’area di Piombino e di quelle terremotate», l’abbinamento ministeriale offre la copertura istituzionale alla politica di sostegno al «turismo culturale», ambigua combinazione lessicale per nobilitare la moda dilagante delle visite «mordi e fuggi» alle città d’arte, orfane della stagione del grand tour.
Ad attuare la nuova politica è il governo Renzi-Franceschini. Innanzitutto con il decreto-legge 83/2014 che destina ben 220 milioni al credito d’imposta per il rilancio del settore turistico-alberghiero (tourism bonus) e va di pari passo al riordino dell’amministrazione centrale e periferica dei beni culturali, funzionale allo sfruttamento economico e alle attese del business dei servizi museali aggiuntivi. Approvato dal Dpcm n. 171/2014 (anche sulla base delle indicazioni della Commissione di studio per il rilancio dei beni culturali e del turismo e per la riforma del ministero), il nuovo regolamento del Mibact non solo prevede una direzione generale per il turismo, Poli museali regionali incaricati di promuovere «l’integrazione dei percorsi turistico culturali» (art. 34), un apposito comitato consultivo (Musei ed economia della cultura), ma può contare sulle disposizioni a supporto contenute nella riforma della Pa (legge 124/2015) e nella limitazione al diritto di sciopero delle istituzioni museali (decreto-legge 146/2015).
Si tratta di provvedimenti che, invece di rafforzarli, indeboliscono gli istituti a presidio di un uso sostenibile del patrimonio museale che non ne pregiudichi la conservazione e la piena fruizione delle future generazioni. Così, all’insegna della «lotta alla burocrazia», tutela e soprintendenze sono menomate sul piano finanziario (meno 2,1 milioni nel 2016 i fondi per la tutela del patrimonio culturale nella Legge di stabilità 2016) e su quello operativo. Innanzitutto con l’insidiosa trasformazione delle prefetture da uffici territoriali del governo a uffici territoriali dello Stato. Attribuendo ai prefetti più penetranti poteri - non solo di indirizzo e coordinamento ma anche sostitutivi - nei confronti degli organi periferici dello Stato, si mina la pienezza delle funzioni delle soprintendenze il cui esercizio è intralciato e reso più vulnerabile da altre disposizioni: dall’abbreviazione a 90 giorni del termine per l’istruttoria dei pareri obbligatori, oltre il quale scatta l’istituto del «silenzio-assenso», alla sottoposizione di tutti gli atti di tutela al riesame delle Commissioni regionali per il patrimonio culturale, nonché del Consiglio dei Ministri (art. 39, Dpcm 171/14). Le soprintendenze, inoltre, perdono autonomia nei programmi in materia di inventariazione e catalogazione dei beni (ora approvati dalla direzione generale Musei e da quella Educazione e Ricerca) e si vedono restringere il personale: dei 377 storici dell’arte in organico, appena 137 sono destinati alle soprintendenze per le funzioni di tutela, gli altri 240 ai musei e alla valorizzazione turistica.
La chiusura, poi, delle soprintendenze specialistiche e il loro riaccorpamento in appena 39 «soprintendenze uniche» (archeologia, belle arti e paesaggio), ognuna con maggiore territorio da seguire e minore personale addetto, più che semplificazione e più efficienza rischiano di provocare crescenti disfunzioni operative. Un approccio olistico che, trascurando il nodo della formazione specialistica e culturale di funzionari e restauratori, mortifica e depotenzia le specifiche competenze professionali degli uffici e l’incisività dei loro interventi di impulso e verifica del rigore scientifico delle attività museali.
Sulla stessa linea si pone l’autonomia attribuita ai 30 maggiori musei dello Stato, di cui sette a livello dirigenziale generale. Una esternalizzazione incompleta (statuto e Cda propri ma personale e fondi ministeriali) che si accompagna alla scelta di spezzare l’unitarietà della cura del patrimonio museale finora svolta dalle soprintendenze. Sottratte a queste ultime, tutela e gestione, affidate ai neo direttori-manager – organi monocratici (sette di livello dirigenziale generale) reclutati, con modalità concorsuali discutibili, al di fuori (tranne uno) del personale già in servizio, con l’incarico prioritario di promuovere i beni a ogni costo – rischiano di lasciare il patrimonio sguarnito della vigilanza necessaria a scongiurare l’impiego disinvolto delle risorse pubbliche e l’uso improprio di opere e spazi (banchetti, aste, sfilate di moda…) for profit. E gli effetti dell’esautoramento delle soprintendenze sono già osservabili nel caso Maxxi: musei affidati alla gestione autoreferenziale, costosa e poco trasparente di una fondazione di diritto privato che ha ridotto i visitatori a quantité négligeable.
La nuova legislazione, dunque, rompe un equilibrio organizzativo che, pure se ha registrato episodi di incuria, sciatteria e incompetenza nella gestione, ha assicurato l’integrità e la crescita del patrimonio museale e ne ha approfondito la conoscenza e la restituzione di senso. E ciò malgrado l’inadeguatezza della normativa di tutela, la carenza di personale (l’organico del Mibact è sceso da 24.500 a 19.050 posti, di cui solo 17.929 coperti) e di risorse per inventariare e mantenere i beni custoditi. Nonostante la massiccia campagna di stampa a sostegno delle misure governative (con in prima fila «Il Sole 24 Ore») cresce la contrarietà di studiosi, addetti ai lavori e parte più avvertita dell’opinione pubblica al progressivo depauperamento della dimensione tecnico-scientifica nell’amministrazione dei beni dello Stato e alla corrispondente dilatazione di quella politica ed economica che, privilegiando una visione aziendalistica della gestione, debilita «tutela e sviluppo del patrimonio storico e artistico» congiuntamente previsti dall’art.9 della Costituzione.
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