Non c’è dubbio che Joe Biden e buona parte del Partito democratico abbiano tirato un sospiro di sollievo all’annuncio dei primi risultati certi delle elezioni di metà mandato di martedì 8 novembre. Nonostante le ansie della vigilia e i commenti sempre più preoccupati per la tenuta della democrazia americana, la paventata spallata repubblicana, l’onda rossa che avrebbe dovuto spianare la strada a una ricandidatura di Donald Trump nel 2024, non sembra esserci stata.
Certo, il Partito repubblicano ha guadagnato seggi alla Camera, in misura minore di quella prevista; incerta è la situazione al Senato, dove in ballo ci sono i risultati di tre Stati – Nevada, Arizona e Georgia e per quest’ultimo appare già chiaro che occorrerà aspettare il ballottaggio. In questi tre Stati, tuttavia, il Partito democratico, che è riuscito a controllare uno Stato cruciale come la Pennsylvania, ha dimostrato di essere competitivo, con buone possibilità di prevalere in Georgia e in Arizona. Il Partito democratico, poi, è riuscito nell’impresa di ottenere la vittoria nella corsa alla carica di governatore in Stati importanti come il Michigan, dove è stata rieletta Gretchen Whitmer, oggetto di un tentativo di rapimento da parte di alcuni gruppi di suprematisti bianchi, il Minnesota, il New Mexico e il Maine. Particolarmente rilevante è stata anche la vittoria di Kathy Hochul a New York, prima donna ad essere eletta alla carica di governatrice, dopo una campagna particolarmente agguerrita dominata dal tema, caro ai conservatori, dell’aumento della criminalità e dell’insicurezza. La campagna di Hochul, come del resto quella di Whitmer in Michigan, poi ha dimostrato come la questione del diritto di accedere all’aborto sia stato un tema tutt’altro che secondario per larghe fasce dell’elettorato soprattutto femminile. In Kentucky, ad esempio, gli elettori hanno esplicitamente rigettato un emendamento anti-abortista. Un segnale che dovrebbe essere colto dai democratici e dall’opinione pubblica liberal, troppo spesso tesa a distinguere, e in alcuni casi a subordinare, le questioni relative ai diritti civili e riproduttivi alle issues economiche come la lotta all’inflazione.
Al contrario, una parte consistente dell’elettorato americano (e non solo) ha dimostrato di rifiutare l’idea di una gerarchia dei diritti; per di più, per moltissimi elettori ed elettrici appartenenti ai ceti sociali più poveri e alle minoranze, l'accesso all’aborto e la difesa dei diritti riproduttivi rappresentano anche (se non soprattutto) una questione economica sia dal punto di vista della possibilità di accedere alle strutture sanitarie sia da quello della sostenibilità economica e sociale della maternità.
Pericolo scampato, quindi? Sì e no, si potrebbe dire, all’interno di un contesto che presenta tali elementi di complessità che impediscono di leggere l’esito delle elezioni come una sorta di gioco a somma zero
Pericolo scampato, quindi? Sì e no, si potrebbe dire, all’interno di un contesto, come quello americano, che al di là della chiara ed evidente polarizzazione politica, presenta anche un elemento di complessità tale, per dinamiche economiche, sociali, culturali e soprattutto demografiche, che impedisce di leggere l’esito delle elezioni come una sorta di gioco a somma zero. Naturalmente il sospiro di sollievo espresso da molti commentatori e consiglieri del presidente è giustificato se confrontato con il clima di tensione, ansia e di vera e propria violenza politica che ha contraddistinto la campagna elettorale, con episodi di intimidazione nei confronti dei funzionari statali addetti ai seggi elettorali e degli stessi elettori, le accuse di brogli e gli annunci di non riconoscere la legittimità del processo elettorale stesso.
Le campagne elettorali americane non sono mai state un pranzo di gala, ma il clima di questo tornante elettorale ha risentito dell’eco dell’assalto al Campidoglio dello scorso anno, dell’esacerbarsi dei toni grazie alla retorica roboante di Trump e dei suoi accoliti. Un sondaggio pubblicato pochi giorni prima del voto metteva in evidenza come l’88% degli americani fosse preoccupati dall’intensificazione dello scontro politico. Tanto è vero che Biden, negli ultimi giorni, ha utilizzato anch’egli una retorica gravida di preoccupazione, dichiarando come al centro della competizione vi fosse la tenuta stessa della democrazia. Concetto ripetuto da esponenti del calibro di Kamala Harris, Hillary Clinton, e soprattutto Barack Obama, il quale in Pennsylvania aveva dichiarato, “democracy itself is on the ballot”.
La presenza di esponenti repubblicani, spesso di poca esperienza e di profilo eccentrico, dichiaratamente negazionisti, cospirazionisti, suprematisti, in alcuni casi accusati di aver partecipato all’assalto del 6 gennaio o di far parte di gruppi paramilitari, accomunati dalla comune accettazione del credo trumpiano sull’elezione rubata, aveva sollevato non pochi interrogativi sulla deriva di un Partito repubblicano sempre più radicale e settario, incapace di resistere al messaggio di Trump, l’unico apparentemente in grado di mobilitare le masse repubblicane. La sconfitta di alcuni di questi personaggi – ma non tutti e questo è già un dato, sono circa 200 i candidati eletti alle varie cariche politiche statali e nazionali dichiaratamente negazionisti (cioè convinti della illegittimità delle elezioni del 2020 e quindi di Biden) – ha dimostrato le aporie di un sistema politico, come quello americano, in cui il passaggio delle primarie è l’occasione per una radicalizzazione dell’offerta politica che non appare però in grado di resistere alle istanze poste dalle elezioni generali. La crescente quota di elettori indipendenti, ad esempio, nonché una modificazione della geografia elettorale dei diversi distretti per i mutamenti di natura demografica, fanno sì che l’elezione generale si fondi su dinamiche diverse e che permettono di far prevalere posizioni, non tanto più moderate o centriste, quanto più attente a non dare carta bianca a candidature improvvisate o di poca sostanza politica.
Il passaggio delle primarie è l’occasione per una radicalizzazione dell’offerta politica che non appare però in grado di resistere alle istanze poste dalle elezioni generali
Si tratta quindi di un ridimensionamento del messaggio di Trump? I risultati di queste elezioni dimostrano che ha perso il suo tocco “magico”, come è stato osservato? L’elezione di un numero significativo di candidati e candidate, il cui unico merito è quello di aver sposato la versione di Trump, dimostra come non sia facile liquidare il peso che l’ex presidente continua ad avere sull’elettorato repubblicano e sulla sua capacità di mobilitare e sollecitarne gli umori profondi. L’astro nascente Ron DeSantis che ha vinto in maniera eclatante l’elezione a governatore della Florida, anche grazie al sostegno della contea di Miami tradizionalmente democratica, ha sollecitato non poche speranze in chi comincia a ritenere Trump più un peso che non un vantaggio. Non casualmente il conservatore “New York Post” ha messo in copertina DeSantis con il titolo “DeFuture”. Per i progressisti non è una buona notizia. La sua prima dichiarazione è stata “We Reject Woke Ideology”, in cui “Woke”’ è il termine dispregiativo usato dai conservatori contro le istanze riguardanti i temi delle ingiustizie etniche, razziali e di genere.
DeSantis è il governatore dello Stato che lo scorso anno aveva approvato una proposta di legge dal titolo Stop Wrongs to Our Kids and Employees (Woke) che avrebbe permesso ai genitori di fare causa a quei distretti scolastici che impartivano insegnamenti influenzati dalla critical race theory, con l’obiettivo, come dichiarò, di non permettere che venissero utilizzati soldi dei contribuenti per “insegnare ai nostri figli ad odiare il nostro Paese”; espressione, quest’ultima, che significava non mettere l’accento sul tema della schiavitù e del razzismo sistemico. Inoltre, DeSantis aveva firmato altre tre leggi che avrebbero dovuto portare a ridurre i finanziamenti pubblici ai college e alle università statali accusati di proporre nuove forme di “indottrinamento” per favorire, invece, corsi di educazione civica sui mali del comunismo e dei regimi totalitari. Proposte che sono state bloccate dai tribunali che hanno intravisto in esse un serio rischio di limitazione della libertà di parola e di espressione.
Se queste elezioni hanno ridimensionato l’appeal di Trump, non hanno però rafforzato la presidenza Biden almeno per quel che riguarda le sue prospettive future in vista del 2024. Interrogativi sulla sua capacità di leadership, sul peso dell’età erano già emersi in modo più o meno palese, all’interno di un contesto in cui non sono pochi i dubbi o le aperte critiche riservati alla sua vicepresidente, Kamala Harris, che tante speranze aveva invece suscitato solo due anni fa.
Più che un test sulla presidenza Biden o sulla capacità di spinta del Partito repubblicano, queste elezioni, al momento, sembrano sancire l’avvio di una fase di transizione politica per individuare nuovi contenuti e una nuova leadership, possibilmente facendo raffreddare gli animi, depotenziando gli elementi di contrapposizione frontale che stanno mettendo a dura prova i delicati equilibri istituzionali e costituzionali di un Paese complicato come gli Stati Uniti d’America.
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