Uomini in carne ed ossa è il titolo di un bellissimo articolo di Antonio Gramsci, scritto dopo la grande sconfitta del biennio rosso (1919-21), quando – successivamente all’occupazione delle fabbriche – la classe operaia di allora dovette tornare al lavoro senza grandi conquiste, incalzata anzi dal processo di ristrutturazione capitalistico che colpiva (allora come adesso) i posti di lavoro. Di lì a poco, la violenza fascista avrebbe tolto di mezzo per vent’anni l’iniziativa rivoluzionaria degli operai.
Altri tempi, ma sabato sera a Porto Torres, mentre seguivo con attenzione il succedersi degli interventi alla Assemblea operaia convocata da Tino Tellini e dai suoi amici, quella espressione, uomini in carne ed ossa, mi è tornata alla mente. I ragazzi e le ragazze presenti nella Sala del Centro culturale si succedevano al microfono: Alcoa, Carbosulcis, Vilnys, E-On, Pastori sardi, Precari intellettuali, il terziario in crisi. Centinaia di posti di lavoro bruciati in pochi anni. Una Sardegna dolente e sconfitta, che si è opposta come ha potuto, anche eroicamente, e ha perduto. C’era molta rabbia, ieri sera, e molta rivendicazione.
Un grande imputato sul banco degli accusati: la politica. La politica senza specificazioni, perché – come ha detto uno degli intervenuti – "siete tutti eguali", ci avete lasciati soli, ve ne siete fottuti, pensate alle vostre carriere. Siete nostri nemici.
Ho preferito ascoltare, non replicare. Del resto io sono ormai un ex politico. Se avessi parlato avrei detto forse che qualche cosa da deputato ho cercato di farla, come ho saputo e potuto. Avrei magari citato le sei o sette interrogazioni fatte solo sulla Vilnys. E il fatto che quando quei lavoratori furono ricevuti da Napolitano io c’ero, per scelta loro che me lo avevano chiesto. Ma avrei fatto male. Perché qui il problema non è di salvarsi l’anima, posto che se ne abbia diritto: il problema è più grosso.
Comincio a dire, allora, che la politica ha mille e una colpe: è stata distratta, egoista, incompetente, miope, incapace di vedere soluzioni a lunga distanza, incolta, divisa, troppo silenziosa. E ha lasciato soli i lavoratori, troppo soli. Poi è stata anche corrotta, ma questo è un punto a sé, che meriterebbe ulteriori precisazioni che qui non posso fare.
Però, pensavo l’altra sera, e penso ancora: ma per quasi due secoli i lavoratori hanno individuato il loro nemico nel padronato, nelle strategie del capitale; e oggi tutto si riduce a vedere il nemico nella politica? Nella cosiddetta "casta"?
Sul "Messaggero" di domenica è uscito un bellissimo editoriale di Giulio Sapelli, un economista molto lucido (certo non è un comunista, ma vale la pena di leggerlo). Dice Sapelli: siamo in mezzo a una grande mutazione genetica del mondo contemporaneo. Dal lavoro siamo passati al capitale. Dal capitalismo produttivo del profitto a quello della rendita. Di conseguenza si sono ridotte drasticamente (per l’esproprio di risorse in favore della rendita) le risorse destinate al consumo. E questo ha determinato la gelata sulle industrie che quei beni di consumo producono. E questo incide drammaticamente su salari e occupazione. Come se ne esce? Se ne esce con una profonda riforma dell’intero meccanismo, con un riassestamento degli equilibri, prima interni al capitalismo e poi tra capitale e lavoro. La faccio troppo difficile? Parlo d’altro? Se l’altra sera avessi parlato, come mi aveva offerto di fare Tino Tellini (ma ho detto di no) avrei potuto dire questo o sarei stato subissato di fischi? Probabilmente la seconda cosa. Eppure, cari ragazzi e ragazze di sabato sera, tocca a voi, a voi che siete le avanguardie espresse dalle lotte recenti, porvi anche il problema del domani. Come se ne esce? Non potete buttarla tutta sulla politica. È un tema di tutti, di tutta la comunità nazionale. E un tempo la classe operaia avrebbe detto la sua, non si sarebbe limitata alla denuncia, alla protesta, alle grida.
Non equivocatemi. Non voglio fare la morale agli uomini in carne e ossa. Hanno – avete – mille ragioni. E non abbiamo nessun diritto di far loro la morale. Però – anche per quelle poche cose che da parlamentare ho cercato di fare – sento il dovere di dire che la protesta contro la politica non basta. Bisogna che le avanguardie operaie indichino una prospettiva futura (come ha fatto con la consueta intelligenza il mio amico Pietro, non a caso uno dei dirigenti dell’occupazione dell’Asinara). Bisogna che si facciano gruppo dirigente in senso generale. Anche per riformare la politica sarda, anzi – se è il caso – per concorrere alla sua trasformazione radicale. Ci vuole un’altra politica, che guardi lontano. Che sappia dire cosa succede, ora che il vecchio modello industriale sta scomparendo. Che dica con fermezza (anche contro gli eccessi dell’ambientalismo più talebano) che senza industria (una "nuova" industria) non si va da nessuna parte. Che individui il nuovo modello di sviluppo. Se ne esce solo in avanti. Ma se ne deve uscire. E i ragazzi e le ragazze che sabato erano a Porto Torres, per il loro coraggio, la loro determinazione, la forza che proviene dalla loro esperienza, debbono stare nel gruppo di testa.
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