Le prossime elezioni regionali in Lombardia sembrano essere ormai diventate un banco di prova di preminente rilievo nazionale per il Pd e la sinistra. Soprattutto dopo la sconfitta alle politiche, derivata non tanto da uno sfondamento della destra nel consenso, ma particolarmente dalla mancata utilizzazione degli incentivi coalizionali forniti dalla legge elettorale. La sconfitta ha messo in moto un turbinoso processo di discussione (interna ed esterna al partito), che ha rimesso in gioco profondamente questioni di identità e schieramento. Questioni che sono messe subito alla prova dalla situazione che si è creata in Lombardia.
In effetti il punto di partenza è stata una rottura a destra. Dopo una competizione neanche troppo sotterranea durata mesi, la vicepresidente e assessora al Welfare Letizia Brichetto Moratti si è sganciata dalla coalizione, annunciando la propria candidatura a presidente contro quella del presidente uscente Attilio Fontana. Su questa candidatura si è subito profilata l’intesa con il Terzo polo di Calenda-Renzi.
Tale situazione ha messo in fibrillazione il Pd nazionale e quello lombardo, perché si è profilata una posizione interna – per la verità apparentemente minoritaria in ambedue i citati livelli – che ha cominciato a sostenere l’ipotesi di aggregare il Pd a questa candidatura nuova, configurando quindi un’alleanza centrista. Sostenuta anche da un certo battage di stampa, tale ipotesi è stata smentita formalmente dal segretario uscente Letta, ma non si è sopita del tutto. I sostenitori di questa posizione insistevano su due punti: da una parte che fosse finalmente possibile cogliere l’occasione della frattura a destra per combattere e sconfiggere il duraturo sistema di potere a trazione leghista della regione; dall’altra, esplicitamente o meno, questa collocazione avrebbe risolto nella direzione di un’alleanza al centro la disputa nata con il mancato accordo con Calenda e Renzi alle politiche. Quindi, un’opportunità locale e contemporaneamente uno schieramento di rilievo generale.
I critici hanno messo in evidenza due elementi del tutto speculari. Il primo: la credibilità personale relativa della candidata Moratti rispetto a una carriera tutta inscritta senza sussulti particolari nell’orizzonte della destra berlusconiana-leghista, giunta fino a gestire la privatizzazione tendenziale ulteriore della Sanità nell’ultimo percorso condotto condividendo la responsabilità della guida della regione. Dall’altra parte, in seconda battuta, la critica allo snaturamento del Pd che si sarebbe realizzato nella direzione di un’alleanza con la compagine centrista che sarebbe apparsa particolarmente subalterna, proprio per i modi con cui era maturata. Una vistosa cessione a Calenda del timone sulla linea del partito.
Naturalmente al di sotto di questa divergenza del tutto comprensibile di punti di vista sta la scommessa sulla potenzialità elettorale della candidatura Moratti. Al di là di alcuni sondaggi tutti da verificare, è piuttosto difficile immaginare che essa abbia un profilo che permetta sensibilmente di allargare il consenso rispetto alla tradizionale area di influenza della destra lombarda. Mentre dovrebbe poi mostrarsi in grado di mantenere o incrementare la fedeltà di un elettorato progressista già falcidiato dalle astensioni, che sarebbe sicuramente in dubbio rispetto alla sua credibilità.
La regione Lombardia è saldamente in mano alla destra ormai da decenni, e possiamo dire schematicamente che questa egemonia affondi nella capacità classica e sperimentata del forza-leghismo (ricordiamo qui le riflessioni fondamentali di Edmondo Berselli) di intercettare una sensibilità diffusa nella regione-traino dell’economia nazionale, attorno alla logica di un certo individualismo antistatalista, cui si aggiunge un elemento vagamente identitario (localistico-regionale o nazionale a seconda degli accenti), capace di attirare anche una parte cospicua degli scontenti dell’assetto socio-economico dominante. Questo blocco di potere, configurato attorno a un discorso sostanzialmente condiviso e comune, ancorché poi articolato variamente, è sembrato passare senza apparenti scosse alle elezioni politiche verso una guida meloniana: il 50% abbondante del centro-destra regionale in quell’occasione si è spalmato con un 28,5% alla formazione di Fratelli d’Italia, un 13,3% alla delusissima Lega e un 8% scarso a Forza Italia. Il polo centrista ha ottenuto dal canto suo un risultato non marginale, attorno al 10,5%, con un centrosinistra al 26,7 (tra cui un Pd sotto il 20), e un residuale ma non irrilevante 7,5% al Movimento 5 Stelle. Non dimentichiamo che questi risultati complessivi sono andati assieme a una specifica distribuzione territoriale di questo voto, che ha visto il Pd competitivo solo nei centri storici di Milano (e di alcune altre tra le maggiori città), con una sorta di inversione della classica situazione di rappresentanza della sinistra, forte nelle periferie urbane e nelle città operaie.
Il Pd ha una lunga storia negli ultimi turni elettorali che l’hanno visto scegliere sempre candidati il più moderati possibile, con l’ipotesi classica di poter sottrarre voti “centristi”
Come scalfire questa apparentemente solidissima coalizione di forze, umori, sensazioni, consensi? Il Pd ha una lunga storia negli ultimi turni elettorali che l’hanno visto scegliere sempre candidati il più moderati possibile, con l’ipotesi classica di poter sottrarre voti “centristi” in presunta condizione di mobilità a questa duratura coalizione di potere. Si pensi al profilo dell’ultimo di essi, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che aveva finito per essere surclassato, con Fontana in grado di raddoppiare addirittura la sua quota di voti. Insomma, è ormai provato che quella sia una strategia fondamentalmente perdente, perché non esistono o sono troppo pochi gli elettori “moderati” che siano disponibili a cambiare schieramento a seconda del candidato presentato, corrispondendo concretamente a questa rappresentazione teorica della situazione, condotta a tavolino.
Ecco che allora nella nuova situazione che le cose hanno creato potrebbe anche aprirsi la potenzialità di un ragionamento diverso, di perseguire una prospettiva politico-culturale alternativa. Proprio di fronte alla rottura evidente dello schieramento di destra, e all’ipotesi di una capacità di Moratti di togliere qualche consenso al blocco tradizionale, aggiungendoli al tesoretto dell’attuale Terzo polo, ci sarebbe probabilmente lo spazio competitivo per un Pd in grado di presentare una candidatura alternativa che profili un tentativo inedito, mai sperimentato negli ultimi anni. Si tratterebbe di articolare un discorso di alto profilo che non parli solo alla borghesia illuminata, progressista e colta delle Ztl, ma che nemmeno cerchi di riesumare un profilo di sinistra minoritaria tradizionale semplicemente alla rincorsa di una difesa del passato, per parlare agli scontenti della globalizzazione e ai ceti medi impauriti e perdenti. Si dovrebbe piuttosto rilanciare un ragionamento che rimetta in discussione l’individualismo antistatalista dell’etica del lavoro lombarda, per evidenziarne i limiti paralleli, sia per i vincenti che per i perdenti. E provare ad articolare su questa base un disegno di una socialità più avanzata, allargata alle questioni ambientali lette concretamente nel territorio, in rapporto stretto con quello che una società civile comunque articolata e ricca mette a disposizione nel contesto lombardo. Ulteriormente, una prospettiva capace di muoversi in rapporto con una generazione di amministratori “civici” o comunque progressisti che in diversi centri importanti della regione hanno saputo affermarsi negli ultimi anni, smentendo la compattezza totale del clima elettorale ostile. Aggiungendo ovviamente anche un appello forte ai numerosi astenuti e delusi che il campo progressista si è lasciato dietro negli anni. Certo, occorrerebbe una campagna elettorale che osi percorrere le strade della regione in lungo e in largo, senza limitarsi ai salotti milanesi e all’eco della stampa del capoluogo.
Perché non rilanciare un ragionamento che rimetta in discussione l’individualismo antistatalista dell’etica del lavoro lombarda, per evidenziarne i limiti paralleli, sia per i vincenti che per i perdenti?
Non è ancora chiaro se e come il Pd si metterà a questo punto su una strada analoga. Si era parlato di primarie, ma tale ipotesi è stata al momento in cui scriviamo oltrepassata con la scelta di una figura di candidato proprio, su cui sembra essersi coagulata un’alleanza con formazioni minori, come +Europa, Verdi e Sinistra italiana: Pierfrancesco Majorino. Al di là del fatto che si tratti di una persona che ha già un mandato rappresentativo in corso, quello di europarlamentare (e questo dal punto di vista dell’ecologia politica è sempre sconsigliabile), tale figura potrebbe rappresentare una corsa marcatamente autonoma e profilata del Pd. Resta da vedere che messaggio porterà tale candidatura: riuscirà a costruire un discorso comunicabile che si muova grosso modo sulla linea sopra accennata? La vera questione è infatti quella di andare oltre una sterile successione alternativa di nomi e ambizioni diverse, per definire una proposta credibile in grado di parlare efficacemente a quasi otto milioni di elettori.
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