Per parlare di quanto sta accadendo (e non sta accadendo) a Bologna in questi giorni, sono andato a trovare nella sua casa di via Zamboni Guido Fanti. Fanti è molto più di un ex sindaco comunista, anche se nella sua analisi, lucida e netta, la grande esperienza politica e amministrativa emerge con chiarezza. È stato sindaco dopo Dozza e prima di Zangheri, e poi primo presidente della regione Emilia-Romagna. Ha lavorato a lungo al Parlamento europeo, dove tra l’altro ha ricoperto il ruolo di vicepresidente. E ancora oggi non solo segue con attenzione la vita della sua città, ma si impegna in prima persona per prospettare possibili soluzioni ai problemi.

D. Nei giorni scorsi i commenti si sono molto concentrati su ciò che ha portato Delbono alle dimissioni, sui cui la magistratura dovrà far luce. Adesso invece sembra chiaro che occorre tornare a occuparsi di Bologna e di ciò che ci aspetta. Mettendo dunque in conto che la città è senza sindaco, vorremmo capire con lei quali sono le prospettive in un momento così delicato.

R. Non c’è dubbio, siamo di fronte a una crisi davvero profonda e grave.

D. Nonostante tutto, Bologna e l’Emilia restano l’esempio migliore della buona amministrazione rossa. Ce ne ha dato conferma anche pochi giorni fa la visita al Mulino dell’inviato a Roma di «Le Monde», Philippe Ridet, che come molti altri osservatori della stampa estera è apparso molto sorpreso all’idea che una città come la nostra corresse il rischio di venire commissariata.

R. Non mi meraviglia. Comunque è vero, Bologna ha sempre destato molto interesse. Ricordo una visita proprio da parte dello stesso giornale francese, durante il mio mandato di sindaco, quando l’inviato di allora si fermò diversi giorni in città. Ma il ricordo di oggi, in molti casi, è difforme da quella che è stata la realtà. Ad esempio, non è per nulla vero che quello che veniva fatto qui non contasse niente e non avesse delle ripercussioni su scala nazionale; il fatto è che qui si è realizzata una politica che purtroppo non si è realizzata in altre regioni. Ma al di là di questo, ora si tratta di capire la crisi che si è aperta a Bologna.

D. Appunto. Questo è ciò che ci interessa maggiormente, anche se naturalmente, avendone il tempo, sarebbe molto utile parlare un po’ anche di ciò che è stato. Venendo a ciò che è, da qualche giorno sono usciti i primi cartelloni elettorali per Errani che recitano «Emilia-Romagna. Cuore buono dell’Italia che vogliamo».

R. Beh, la coincidenza tra le dimissioni del sindaco e le regionali fa pensare. Certamente è stato commesso un errore, nel dare la candidatura a Delbono, come già dissi allora. Questo è stato lo sbaglio fondamentale, commesso da chi conosceva la situazione, per quanto forse solo in parte.

D. Nonostante tutto, dovrebbero esistere ancora dei paletti per potere candidarsi a fare il sindaco.

R. Esatto. All’epoca in cui ero sindaco mi capitò di trovare indisponibile una persona a cui avrei voluto affidare un ruolo molto importante per ragioni private. Fu lui per primo a dirmi che no, non avrebbe potuto assumere quella responsabilità pubblica per le condizioni private in cui si veniva a trovare. Questa era l’etica.
Ora, dopo anni e anni di tentativi da parte della destra di screditare la nostra amministrazione in tutti i modi e in tutte le forme, a cominciare dal «reato» di essere sindaco del comunista Dozza (si pensi all’intervento delle prefetture e del governo per impedire che potesse esercitare pienamente la sua funzione), ci troviamo di fronte a una situazione davvero grave. E non tanto perché si dà un colpo al potere «rosso», che era già finito con l’inizio di questo secolo.
I sindaci comunisti sono finiti con Vitali. Dopo si è aperta una fase nuova, diversa, che ha visto all’opera i figli della situazione determinatasi con la fine dei partiti politici tradizionali.

D. C’è poi la vittoria di Guazzaloca.

R. La vittoria di Guazzaloca, sì; ma subito dopo anche il recupero che ci siamo impegnati a fare come forze di sinistra, grazie all’individuazione di un piano di sviluppo, lavorando per due anni con un gruppo di una ventina di intellettuali a uno studio per Bologna, per fornire al nuovo sindaco (che all’inizio non sapevamo ancora chi fosse) le idee per un progetto.

D. Non si è visto molto, però, di quel progetto…

R. Quando venne fuori il nome di Cofferati, noi lo rendemmo partecipe del nostro lavoro, facendolo venire ai nostri dibattiti, che erano dibattiti pubblici. Concluso il lavoro, gli consegnammo un vero e proprio «malloppo». Ma è andata a finire che lo ha messo in un cassetto e non se n’è più parlato.

D. Appunto. Forse non è un caso che anche nei giorni scorsi in un sondaggio, di cui francamente non conosco né metodologia né campione, la grande maggioranza dei bolognesi intervistati si è detto complessivamente scontento del lavoro fatto da Cofferati. Ma sondaggi a parte, direi che in effetti il giudizio nei confronti della passata amministrazione è fortemente critico da parte di molti.

R. Ma è evidente. Del resto, fu da subito chiaro un problema, vale a dire la scelta di un metodo di lavoro, che non doveva essere personale, ma che andava visto in rapporto al modello emiliano nato negli anni Sessanta: quel modello che prevedeva il coinvolgimento delle realtà imprenditoriali con l’attività di governo del territorio.

D. I mitici asili nido emiliani non sono nati per caso.

R. Ovviamente no. Nel pensare alle donne che si impegnavano andando a lavorare bisognava per forza anche pensare agli asili. Si pensi ai livelli di occupazione femminile in Emilia-Romagna. Non era dunque questione di essere comunisti, ma di saper progettare le politiche, ad esempio, con l’apertura al mondo cattolico.

D. Mentre lei fa cenno all’apertura al mondo cattolico mi viene in mente un episodio particolare (e importante): l’accoglienza da parte di Dozza a Lercaro che arriva in stazione da Roma dopo aver partecipato al Concilio.

R. Sì, quello fu un momento cruciale; sino ad allora non c’era rapporto fra la Curia e l’amministrazione, anzi c’era un rapporto di scontro, molto acceso. E ci sembrò necessario avviarci su un terreno nuovo.

D. Anche riconoscendo il lavoro fondamentale fatto nel Concilio tanto da Lercaro quanto da Dossetti. A Lercaro venne poi data la cittadinanza onoraria.

R. Infatti. Durante il mio mandato si pensò alla cittadinanza onoraria, permettendo così a Lercaro di entrare a Palazzo d’Accursio, laddove un vescovo non entrava da molto tempo. Quegli anni furono fondamentali. Penso alle elezioni del ’56 e al Libro Bianco di Dossetti, quando ci trovammo, per la prima volta, di fronte a qualcuno che ci criticava non perché eravamo socialcomunisti e rappresentavamo l’anima del diavolo; ma ci criticava per una politica giudicata di conservazione. Noi il Libro Bianco l’abbiamo studiato.

D. Non l’avete messo nel cassetto come avrebbero poi fatto altri, molti anni dopo.

R. No, certo che no: lo studiammo e cercammo di impostare il nostro grande programma di sviluppo non senza preoccuparci di tenere un bilancio in pareggio, cercando al tempo stesso nuove risorse per potere attuare un programma così ambizioso. In quegli anni, nascono, per primi a Bologna, i consigli di quartiere. La Bologna di oggi è venuta fuori da quel lavoro profondo. A volte vengo accusato di essere un vecchio nostalgico, ma non è questione di essere nostalgici.

D. Quello fu il punto di partenza per l’avvio di tutto ciò che c’è oggi a Bologna: dalla fiera, all’aeroporto, alla tangenziale.

R. Sì, nascono in quel periodo, in quel momento, e avvengono sulla base di una partecipazione ampia. Tanto per dire, il capogruppo della Democrazia cristiana, Felicori, era il presidente della fiera. Tutto era contraddistinto da una compartecipazione e dal punto di vista industriale, e dal punto di vista dello sviluppo sociale e civile. I famosi «distretti» sono nati così. Erano i capisaldi cui facevano riferimento migliaia di piccole medie imprese sparse nel territorio.

D. Ma questo modello è in crisi.

R. Questo modello risente della crisi che ci ha investiti tutti. Ecco la gravità della crisi politica a Bologna che si è aperta e che, se non vengono fatte le elezioni al più presto, si trascinerà avanti con un danno enorme per Bologna.

D. Quanto lei ha detto finora, ci pare, mette subito in evidenza proprio l’importanza di un progetto di ampio respiro per lo sviluppo. Allora fu reso possibile grazie alla volontà di lavorare non limitandosi all’orizzonte del proprio mandato, ma guardando a ciò che sarebbe stato da lì a qualche decennio.

R. Questo è il punto. Non a caso l’etichetta era «Bologna 2000». Purtroppo non si riuscì a fare tutto.

D. Pensa all’università?

R. Sì, al progetto di un campus universitario al di là della tangenziale. Si pensi che allora gli studenti erano 10.000, ma già c’era chi parlava di 100.000 studenti all’inizio del 2000. E aveva ragione, evidentemente.

D. Realisticamente che possibilità abbiamo che nei prossimi anni ci sia a Bologna un’amministrazione in grado di pensare in grande mettendo a punto un nuovo progetto per la città?

R. È quello di cui abbiamo bisogno. E il tempo per lavorare in questa direzione ci sarebbe. Ma le elezioni vanno fatte subito. Pensare al voto tra un anno è una follia. Perché per un anno si avrebbe una condizione in cui non si fare nulla, poiché un commissario deve limitarsi all’ordinaria amministrazione. Del resto, nella pratica, è poi quello che sinora aveva fatto Delbono. Non si può non capire il pericolo che ci troviamo di fronte, nel momento in cui incalza la crisi economica, viene a mancare una stampella decisiva per affrontarla. Avremmo di fronte un anno tremendo. Si pensi ai problemi legati alla disoccupazione, ad esempio. Molti operai non hanno lavoro. Sarebbe una situazione tragica. Non può venire a mancare la politica in un momento così drammatico per la società.

D. Staremo a vedere che ne sarà degli emendamenti presentati alla Camera, da Vassallo, e al Senato, da Vitali. Come ha visto ora è partita una raccolta di firme per sostenere l’urgenza del voto al più presto. Molto spesso gli appelli hanno un valore prettamente simbolico, ma in questo caso è interessante notare come le adesioni siano trasversali.

R. Sì. Ma fuori Bologna si preferisce l’attacco diretto alla sinistra, come se questo risolvesse i problemi. Mentre in questo momento ci sarebbe bisogno di una unione per Bologna per far fronte a un momento così difficile.

D. Si può pensare a una sorta di governo di unità cittadina… Ma si tratta pur sempre di trovare qualcuno disponibile a impegnarsi in prima persona.

R. Certo. Ma adesso il problema non sta nei nomi. Magari adesso non saltano fuori, ma i nomi ci sono. E da questo punto di vista bisogna fare lo sforzo per mettere in moto le intelligenze più forti che esistono. Del resto le venti persone che hanno lavorato con me al progetto…

D. Quello che è finito nel cassetto di Cofferati, per intenderci?

R. Esatto. Quegli uomini lì ci sono ancora tutti, e hanno tutti delle responsabilità importanti

D. E quelle persone sono ancora disponibili.

R. Ce ne saranno ancora di più. Il problema è come riuscire a mettere in moto il tutto, stante la difficoltà della sinistra di esercitare un’azione politica reale, forte. Certo, bisognerà guardare all’università.

D. Quello che non ha saputo o voluto fare Cofferati.

R. Pensi che quando Cofferati ha presentato la sua Giunta (ero al mare, venni subito a Bologna) gli dissi «ma cosa hai fatto, avevi l’occasione buona e invece ti sei fatto incantare e hai accettato i nomi che ti hanno fatto i partiti e che in molti casi neanche conoscevi». Lì è l’origine del fallimento di quell’esperienza. Anche adesso bisogno ragionare sui contenuti, e solo attorno ai contenuti fare emergere le persone. Per quanto mi riguarda i contenuti sono chiari, ma certo non possono uscire sino a quando non sarà decisa la data delle elezioni.

D. Questa grave impasse potrebbe essere lo spunto per ripartire.

R. Potrebbe essere. Ma serve una forza politica che adesso non c’è. L’unica forza potrebbe essere il sindacato. Ma è ancora prematuro parlarne, ripeto, sino a che non si conosce la data delle elezioni.

D. Meglio poi non aprire la parentesi sulle elezioni regionali, un tema non meno delicato.

R. Altroché. Anche perché questa offesa alla città è un’offesa che si ripercuote a livello regionale. Se viene a mancare una città importante come Bologna la regione è zoppa. E anche questo è un problema che dovrebbe essere esaminato attentamente da chi governa la regione, mentre al momento non mi pare venga fatto.

D. Tornando a Bologna, se lei dovesse individuare tre priorità per la prossima giunta comunale…

R. Per rispondere, riprendo il lavoro che facemmo durante la scorsa campagna elettorale. Innanzitutto, credo che le questioni centrali si raccolgano ancora sotto l’idea di «Bologna città metropolitana», perché Bologna non è più in grado di dirigere e governare una realtà economica e sociale che è ormai dilatata. Questa dunque è la prima priorità, perché solo una concezione come quella pensata con quell’idea può tenere in gioco il modello emiliano, che altrimenti va a catafascio. Legata a questo, ed è il secondo punto, c’è la politica ambientale, che va fatta su larga scala e che deve coinvolgere i diversi settori. Infine, in particolare in questo momento, serve una grande attenzione al mondo del lavoro e ai problemi occupazionali.

D. In sintesi, e per concludere riprendendo il discorso iniziale, possiamo dire che serve un «veduta lunga» per Bologna.

R. Esatto. È questo che oggi è assolutamente indispensabile.