Riformare il sistema pensionistico si sta rivelando difficile in tutta Europa. Ma in Francia la riforma lanciata dal presidente Sarkozy – che mira, tra l’altro, a far slittare progressivamente l’età pensionabile da 60 a 62 anni e l’età della pensione definitiva da 65 a 67, a condizione di avere 41,5 anni di contributi (al posto degli attuali 40,25) – ha innescato una mobilitazione di portata molto vasta. Avviata in primavera, la protesta si è infatti prolungata fino a oggi. Se gli scioperi sono stati relativamente poco partecipati, salvo in determinati settori (trasporti ferroviari e urbani, petrolchimico, autotrasporti), le manifestazioni sono state invece massicce. In autunno, si sono mobilitati gli studenti delle scuole medie superiori, seguiti dagli universitari: sono scoppiati scontri anche violenti, cui hanno partecipato giovani dei "quartieri sensibili" di alcune grandi città, come Lione e Parigi. L’opinione pubblica ha ampiamente sostenuto i sindacati e condannato non il principio della riforma in sé ma questa riforma. Come giustificare l’ampiezza di un simile movimento? La maggioranza dei francesi ha deplorato il fatto che la riforma, oltre a essere stata mal spiegata, sia stata debolmente negoziata. Va detto, inoltre, che la riforma è stata sostenuta da un presidente che nei sondaggi è ai livelli minimi di popolarità e da un ministro del Lavoro, Eric Woerth, la cui credibilità è stata intaccata, prima dell’estate, dalle rivelazioni sul suo supposto conflitto di interessi in quanto tesoriere del partito presidenziale, l’Ump, e sugli stretti rapporti intrattenuti con la donna più ricca di Francia, Liliane Bettencourt. Tutto ciò non ha che alimentato l’immagine di un esecutivo vicino alle fasce più benestanti della popolazione e ai grandi patrimoni.
L’abile comunicatore Sarkozy ha perso dunque la battaglia di opinione sulle pensioni.
Ma altri fattori contribuiscono a rendere conto del profondo sentimento di ingiustizia che tanti francesi hanno provato per certi aspetti di una riforma che, almeno in origine, faceva pesare lo sforzo essenziale del finanziamento sulle categorie sociali più deboli e penalizzava tanto le donne quanto i lavoratori più disagiati. Innanzitutto quella che Tocqueville ha indicato come "la passione dell’uguaglianza", così radicata in Francia; quindi il rapporto con il lavoro – i francesi lavorano meno, ma con un’alta produttività, e sono molto legati ai tempi di riposo e alla pensione; e, ancora, il profondo malessere dei giovani.
Non è tuttavia esatto pensare che la Francia abbia vissuto uno degli psicodrammi sociali cui è avvezza. La medesima, grande questione si pone ormai in tutta Europa, dopo la crisi del 2008, con governi che perseguono aspre politiche di austerità e deregolamentazione e si dichiarano al contempo preoccupati della coesione sociale. Che fare del Welfare che per lungo tempo è stato uno dei tratti caratterizzanti dell’identità europea? E dopo Grecia, Spagna, Francia e, ora, Gran Bretagna, quali saranno i prossimi Paesi coinvolti?
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