La proposta del segretario del Pd di introdurre una «tassa di solidarietà» di due punti dell’Irpef per i redditi sopra 120mila euro, da destinare a interventi per le fasce di popolazione più bisognose, non ha solo il merito di avere scompaginato il fronte politico, con Lega e Udc favorevoli e Rifondazione e Pdl contrari, ma anche quello di sollevare un tema politicamente assai rilevante. Non è un caso che anche altri paesi, tra cui l’America di Obama e il Regno Unito, ma anche la Germania della Merkel, si stiano muovendo in direzioni analoghe.
Partiamo dalle critiche, che si sono tutte adagiate sugli aspetti tecnici della proposta, senza affrontare il tema della giustizia sociale che sottende la proposta stessa. Si è detto: è una proposta una tantum; l’Irpef è ampiamente evasa e a pagare sarebbero i soliti noti: all’incirca 200.000 contribuenti, per lo più lavoratori dipendenti. Ma non si dice che il reddito di lavoro dipendente e pensione, al di sopra dei 120mila euro, non supera il 50% del reddito complessivo della stessa classe, il restante è reddito di liberi professionisti, di impresa, partecipazioni, fabbricati e così via. Si è detto, sempre in tono negativo (sia da parte di Berlusconi, che di Rifondazione), che è un’elemosina, si ma si trascura che potrebbe, ad esempio, compensare il taglio del Fondo sociale dei comuni fatto dal governo. La questione importante che la proposta solleva, e che non è stata adeguatamente affrontata, è dunque un’altra. La crisi accentua le diseguglianze nella distribuzione dei redditi e della ricchezza, da noi più marcate rispetto ad altri paesi sviluppati e in crescita negli ultimi lustri, deprime la domanda e amplia i disavanzi pubblici, facendo lievitare il debito pubblico, che ancora in Italia supera il 100% del Pil.
Se si vogliono dunque contenere gli effetti perversi della crisi sulle fasce più deboli, è opportuno effettuare tramite l’intervento pubblico (sia dal lato delle entrate, sia da quello delle spese) interventi redistributivi che diano corpo alla presenza dello stato sociale e non soltanto allo stato erogatore di fondi a banche e imprese, così come la crisi impone. E anche a questo proposito si potrebbe chiedere alle famiglie agiate degli imprenditori che hanno accumulato ricchezza di concorrere con capitale proprio al finanziamento dei loro investimenti condividendo il rischio con gli istituti di credito. Operazioni redistributive concorrono a ridurre gli effetti macroeconomici negativi dovuti alla crisi, cosa che dovrebbe stare a cuore anche a chi è meno sensibile ai temi della solidarietà, perché così si riducono tensioni sociali che in periodo di crisi sono destinate ad aumentare; contribuiscono a sostenere la domanda, perché la propensione al consumo è più elevata per chi ha meno reddito che per chi è più ricco e può anche risparmiare. Inoltre, se avvengono con "bilancio in pareggio" (compensando cioè variazioni discrezionali delle entrate e delle spese, in modo da lasciare il saldo invariato) sono il modo migliore per controllare i conti pubblici e contenere il debito da lasciare alle future generazioni. Ex post il disavanzo potrebbe anche migliorare, contestualmente all’aumento della domanda interna.
In conclusione, sarebbe opportuno che alla proposta di Franceschini non ci si limitasse a formulare critiche tecniche da "dentista", direbbe Keynes, dimenticando, direbbe ancora oggi Beveridge, che la "miseria genera odio" e rilevanti problemi sociali.
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