Dopo una settimana di ipotesi, voci, smentite e “conti in tasca” sembra che il governo abbia alla fine deciso le misure per affrontare l’emergenza conti pubblici. Il testo definitivo del decreto ancora non è noto, ma a quanto si sa consente comunque qualche primo commento.
Che vi fosse bisogno di intervenire per correggere i conti pubblici è certo, e anzi meravigliavano certi ottimistici commenti, reiterati, fino a poco tempo fa, dal nostro premier. Era sufficiente leggere i programmi di stabilità per la Commissione europea o la Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza Pubblica (ma chi conosce questi documenti, oltre ai pochi addetti ai lavori?) per sapere che il governo si era già impegnato, in ambito comunitario, a correggere entro il 2012 il disavanzo (entrate meno spese pubbliche) di 1,6 punti di Pil, ossia di circa 24-25 miliardi: l’ammontare di questa manovra. La crisi greca ha accelerato i tempi, e ci ha risvegliato da una favola che il governo si ostinava a raccontare, sapendo peraltro bene come stavano le cose.
Le “manovre” di aggiustamento dei conti pubblici possono essere congegnate in molti modi. Soprattutto devono avere alcuni ingredienti essenziali per essere efficaci, rispetto all’obiettivo: devono essere credibili, per rassicurare i mercati ed evitare la speculazione; devono ridurre il disavanzo senza penalizzare la crescita, che al contrario deve essere stimolata perché è il miglior ingrediente per migliorare gli stessi conti pubblici; devono essere eque per evitare le tensioni sociali, che inevitabilmente rischiano di acuirsi in periodi di crisi, e per rilanciare, anche tramite questa via, la domanda.
Che questa manovra sia credibile vi è qualche dubbio. Da un lato, rispetto agli annunci iniziali, il governo ha fatto marcia indietro su alcune questioni tutt’altro che simboliche, il che denota la scarsa tenuta della maggioranza e delle sue proposte: è stata stralciata, ad esempio, la norma con l’abolizione di alcune province; si sono attenuati alcuni tagli ai cosiddetti “costi della politica” (come rimborsi elettorali, tagli alle remunerazioni di ministri, sottosegretari e parlamentari) e sembrano essere sparite anche alcune norme di razionalizzazione e regolarizzazione degli interventi in materia di protezione civile. Il rischio, che continuerà nell’iter parlamentare, è che a fronte di tagli generali e fatti con improvvisazione, riescano ad opporsi solo i portatori di interessi più forti e meglio organizzati.
Che la manovra sia capace di stimolare la crescita è pure dubbio: a ciò non basta infatti l’incentivo per il rientro dei cervelli (che peraltro non è una novità), né la possibilità per le regioni del sud di abolire l’Irap e per gli investitori stranieri di poter adottare à-la-carte il regime fiscale che preferiscono. Le misure per lo sviluppo, alcune delle quali sembrano tra l’altro essere state stralciate dal decreto, per confluire in uno o più disegni di legge, sono limitate e di difficile applicazione. Si è scelta la via, onerosa per il bilancio pubblico, di concedere qualche incentivo, piuttosto che quella, preferibile per la crescita, ma più complessa e costosa politicamente, di affrontare riforme strutturali, anche a costo di colpire interessi e rendite diffusi e radicati nel paese.
Anche dal punto di vista dell’equità la manovra suscita perplessità. Per fortuna, rispetto agli annunci della prim’ora sono scomparsi i tagli all’indennità di accompagnamento (che più che essere tagliata andrebbe razionalizzata nell’ambito di una più ampia riforma contro i rischi di non autosufficienza, su cui siamo in grave ritardo rispetto ad altri paesi). Bene i controlli agli abusi, soprattutto nel campo delle pensioni di invalidità, meno bene l’aumento della percentuale di invalidità per poterne usufruire. Nel complesso, chi è in difficoltà di fronte alla crisi (i giovani in cerca di lavoro, i precari, chi ha perso il lavoro, le famiglie più numerose e cosi via) non riceve alcun beneficio. Anzi, rischia di avere meno servizi o pagare più tasse, a seguito dei tagli a Regioni ed enti locali. Al contempo, si mette un po’ di zizzania tra categorie, con forti rischi di incostituzionalità: i più colpiti sono i dipendenti pubblici (che peraltro, si sa, votano a sinistra!) e i top manager delle banche (ma qui la norma è per lo più di facciata). E i manager delle altre imprese, o i ricchi professionisti?
In sintesi, è vero che dobbiamo “mangiare questa minestra”, ma la ricetta proposta dal governo avrebbe potuto essere cucinata meglio e in modo più equilibrato. Così è non solo indigesta, ma ha diversi ingredienti sbagliati. Con una importante eccezione: questa volta sembra proprio che persino un governo che ha in passato sempre ammiccato agli evasori sia costretto a invertire la rotta e andare a batter cassa anche da loro. La lotta all’evasione è di per sé un ingrediente necessario, equo ed efficiente: speriamo anche che nelle azioni di governo, ancora timide ma di buon auspicio, si dimostri credibile ed efficace.
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