Per i Paesi europei tenere i conti pubblici in ordine è la priorità assoluta della politica economica. Mai come in questo periodo, alla luce della crisi, un simile monito suona saggio. Ma se solo vi riflettiamo un attimo, senza ulteriori qualificazioni, rischia di essere un’affermazione folle. Per due motivi.
Il primo: tenere i conti pubblici in ordine, si dice, serve a mettersi al riparo dalla speculazione internazionale. Purtroppo, questo rischia di essere una pia illusione. In Italia l’abbiamo imparato già con la crisi del 1992: la dimensione, la velocità e la volatilità dei flussi di capitale a breve termine sono tali che nessun Paese – anche di rilevanti dimensioni come l’Italia – è in grado di contrastarli. Una fuga di capitali è inarrestabile: e i tassi di interesse sui titoli pubblici possono essere costretti a raggiungere vette assurde, come stiamo vedendo in Grecia e in Irlanda. Le manovre sui conti pubblici servono a scoraggiare fughe di capitali? Certo aiutano, ma non mettono al riparo: se i grandi operatori finanziari scommettono contro un Paese, non c’è bilancio in ordine che possa fermarli. Poco importa che il loro comportamento sia irrazionale: il loro guadagno – come ci hanno convincentemente spiegato gli economisti della finanza, a partire da Joe Stiglitz – non viene dalla razionalità ma dal fatto che le loro aspettative, grazie ai loro comportamenti, si auto-realizzano.
E allora? La risposta è semplice: una ragionevole difesa dei singoli Stati membri dell’Unione sta solo in un’azione comune a livello europeo; nel regolamentare e controllare questi flussi; nel mettere le forze insieme, garantendo i singoli bilanci con le risorse finanziarie di tutti i Paesi. Se non si fa questo, un terribile contagio (Asia fine secolo scorso docet) rischia di coinvolgere progressivamente tutti. I grandi sacrifici delle manovre sui conti pubblici potrebbero essere del tutto vani senza una forte azione politica europea, assai maggiore di quanto fatto finora.
Il secondo. Ammettiamo che le cure da cavallo sui conti pubblici impediscano la speculazione internazionale: ma che ne sarà, nel tempo, delle economie nazionali? Il caso greco è estremo ed esemplare: le politiche fiscali così pazzescamente restrittive naturalmente creano forte recessione; ma una recessione così forte abbatte il gettito fiscale; e richiede ulteriore restrizione; che crea aggiuntiva caduta di gettito. L’unica speranza, come nell’Ottocento, è che tutto ciò – conservando l’euro – faccia ridurre così tanto prezzi e salari da far crescere le esportazioni. Ma questo può succedere nelle economie di oggi? E a che prezzo sociale? Nessuno lo sa. E ogni scetticismo è valido. Un grande esperimento di compressione sociale, con i suoi altissimi costi, che rischia di lasciare i greci con un pugno di mosche in mano: conti pubblici sempre più in difficoltà, in un’economia esangue. Fino a quando? Fino a un default? Fino all’uscita dall’euro con conseguente super-svalutazione e super-inflazione? E che ne è poi dell’euro?
Purtroppo, il problema non è solo degli amici greci: ma con tempi e dimensioni diverse può toccare più Paesi. Anche, e molto, l’Italia, con la sua crescita così stentata da tempo; la matematica non è un’opinione: se ci si rassegna – come fa Tremonti – a viaggiare all’1% i bilanci pubblici del futuro sono a rischio. Se non c’è ragionevole prospettiva di crescita economica, il pareggio di bilancio è esercizio ragionieristico, senza futuro. Questo ha a che fare con le scelte politiche nazionali. Ma anche questo ci riporta al livello comunitario: Europa 2020 o la discussione appena avviata sulle "prospettive finanziarie" 2014-2021 sembrano argomenti minori, quasi surreali, di secondo piano rispetto alla "stabilità": invece politiche per la crescita a livello europeo possono esserne l’unica possibile precondizione.
Mai condivisa saggezza rischia di essere così folle come oggi.
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