Dal più giovane primo ministro della V Repubblica al più anziano. Da un Attal che doveva rappresentare l’ultima chance per rilanciare il macronismo a un Barnier che sancisce il ritorno della destra post-gollista, e dunque di uno dei due pilastri storici della Repubblica fondata dal generale de Gaulle, a palazzo Matignon. La sequenza elettorale di giugno e luglio ha dunque fatto tabula rasa del complessivo progetto del brillante enarca, inaugurato simbolicamente con il lancio del suo En Marche! nella primavera del 2016? E fino a che punto la destrutturazione del sistema politico francese degli ultimi anni può considerarsi strutturale? O per essere più espliciti: uscito di scena Macron (al massimo entro la primavera del 2027) quali sono le prospettive per il complessivo sistema politico-istituzionale della Francia della V Repubblica?
L’arrivo di Michel Barnier a Palazzo Matignon, le sue possibilità di dare finalmente un governo al Paese, come questo sarà composto e i provvedimenti che in accordo o in parte in disaccordo con l’Eliseo assumerà potranno fornire almeno alcuni spunti per rispondere a queste domande.
In attesa di conoscere gli sviluppi, occorre prima di tutto soffermarsi sul profilo di Barnier. Molto si è insistito sul suo ultimo incarico di capo negoziatore per la Ue sul dossier Brexit e molto si è scritto a proposito della sua lunga carriera politica, dal radicamento locale in Savoia, sino ai più alti incarichi ministeriali con tre presidenti della Repubblica, rispettivamente Mitterrand (nel governo di coabitazione di Balladur), Chirac e Sarkozy. Preparazione sui dossier e capacità di negoziare e comporre i conflitti. Queste sarebbero le caratteristiche principali del gollista di lungo corso, che ha iniziato la sua carriera politica con Georges Pompidou all’Eliseo e si ritrova ora a Matignon accanto a Macron, nel tentativo di risolvere la crisi più complicata delle istituzioni francesi dall’epoca dei fatti di Algeria.
Tutto vero e condivisibile per comprendere meglio la scelta Barnier, ma a patto che vi si aggiungano altre due considerazioni solo in apparente contraddizione l’una con l’altra. È possibile affermare infatti che l’opzione Barnier sia stata concepita all’Eliseo come residuale, una sorta di “piano B”, ma contemporaneamente oggi rappresenti la migliore opzione possibile per il presidente.
Anche se in apparenza ondivago, lo schema di Macron dopo il complicato esito delle elezioni legislative ha avuto una sua coerenza
Anche se in apparenza ondivago, lo schema di Macron dopo il complicato esito delle elezioni legislative ha avuto una sua coerenza. L’opzione governo del Nouveau Front Populaire guidato dalla sconosciuta funzionaria socialista del municipio di Parigi Lucie Castets era ontologicamente impossibile, dal momento che le leadership socialista ed ecologista avevano deciso di presentare un fronte compatto con La France Insoumise. Un governo di minoranza (ricordiamo meno di 200 deputati, con la maggioranza assoluta a 289) a trazione Insoumise avrebbe ottenuto in tempi brevissimi una mozione di censura in grado di sommare tutto lo spettro dell’Assemblea nazionale, dalle forze del campo presidenziale e centriste sino al Rassemblement National passando per Les Républicains. Fatto questo passaggio obbligato, Macron si è giocato la carta del suo vero e proprio “piano A” e cioè il socialista riformista o meglio il social-gestionario ex Ps, nella persona dell’ex ministro degli Interni ed ex Primo ministro Bernard Cazeneuve. L’opzione Cazeneuve avrebbe potuto rappresentare l’optimum nella lettura macroniana, cioè la possibilità di “tagliare le estreme” (quindi Insoumise e Rassemblement National), difficilmente pronte a coalizzarsi nel censurare il nuovo governo e comunque anche in caso di convergenza nell’opporsi a questa ipotesi, ben lontani dalla fatidica maggioranza assoluta necessaria per far scattare la censura. Perché non è andata in porto questa ipotesi? Molte ragioni ma due in particolare: la fronda dell’ex partito di Cazeneuve, cioè i socialisti, o meglio la sua maggioranza che ha giurato “fedeltà eterna” a quel guscio vuoto programmatico che è il Nouveau Front Populaire. E dall’altro lato alcune affermazioni del potenziale Primo ministro, il quale avrebbe voluto “mani libere” anche per rivedere certi capisaldi dell’operato del Macron II, prima fra tutti la contestata riforma delle pensioni.
A questo punto si innesta l’opzione Barnier. Residuale certamente, trattandosi comunque di un “piano B”, ma allo stesso tempo parte di un tentativo più ampio operato da Macron per collegare le sue scelte in epoca di primo mandato con gli esiti elettorali della sequenza europee/legislative del 2024 e infine con la complicata situazione economico-finanziaria francese (vedi procedura di infrazione del giugno scorso proveniente da Bruxelles). L’opzione Barnier può essere letta in continuità con quelle Philippe e poi Castex in epoca di primo mandato (proprio Barnier nel 2020 era stato interpellato dall’Eliseo per sostituire l’ex sindaco di Le Havre), ma anche alla luce del legame tra lo stesso Barnier e l’uomo forte dell’Eliseo, il segretario generale Alexis Kohler, e con l’altrettanto stretto rapporto (confidenziale si potrebbe dire) tra l’Eliseo e Nicolas Sarkozy (emblematica a tal proposito la lunga intervista a “Le Figaro” del 30 agosto scorso, nella quale l’ex presidente invitava Les Républicains a riprendere l’iniziativa, tornando al governo del Paese). Ma l’opzione Barnier è anche qualcosa d’altro, connessa con il ruolo giocato nell’ombra (ma nemmeno troppo) da Marine Le Pen e con il legame europeo dello stesso Barnier, due punti solo in apparenza scollegati. Da un lato si è affermato, anche correttamente, che il Rassemblement National può garantire ovvero decidere di “far morire nella culla” il futuro governo Barnier. La scelta di “non censurare a priori” l’eventuale esecutivo e di “giudicarlo sui provvedimenti”, dovrebbe garantire al post-gollista una navigazione, magari non tranquilla, ma comunque un’uscita dal porto. Dall’altro lato non si deve trascurare la dimensione europea ma non nella sua accezione “virtuosa”, cioè la retorica del Barnier per due mandati commissario europeo, candidato alla presidenza della Commissione (sconfitto da Juncker nel 2014) e poi negoziatore di Brexit, quanto in quella più “dialettica”. Non si vuole mettere in dubbio l’europeismo del nuovo inquilino di Matignon, ma a Bruxelles e a Parigi nessuno ha dimenticato le affermazioni del 2021, quando l’allora candidato alle primarie de Les Républicains, pronunciò frasi dure e al limite del contraddittorio a proposito del primato del diritto europeo su quello nazionale, in merito alla corte di giustizia e alle moratorie sui migranti. In un Paese che professa un saldo legame con l’Europa comunitaria, ma che allo stesso tempo critica l’evoluzione del processo di integrazione percepito come non più a guida francese, è evidente come Michel Barnier incarni al meglio questa sorta di “doppiezza”, che negli ultimi anni ha fatto la fortuna innanzitutto di Marine Le Pen. In questo senso per Macron la scelta di Barnier diventa un vero e proprio “piano A”, cioè prendere atto che al di là della logica del “barrage républicain”, che ha impedito la conferma dell’esito del primo turno del voto legislativo, il sentimento profondo del Paese è quello di un mix di insicurezza e risentimento che tende a sfociare nell’antieuropeismo e nel desiderio di rivolta nei confronti delle élite. Se Barnier riuscirà a costruire una compagine di governo, a mettere in sicurezza i conti pubblici, a depotenziare la crisi del potere d’acquisto e ad affrontare con ragionevolezza il tema migratorio, un eventuale voto legislativo anticipato (sino al giugno 2025 il presidente della Repubblica non può sciogliere l’Assemblea nazionale), magari con un correttivo proporzionale, potrebbe fornire un’istantanea meno irrazionale di quella uscita ai primi di luglio.
La dimensione congiunturale è ricca di incognite, che nelle prossime settimane potranno trovare, a patto che nasca un governo Barnier, almeno parziale scioglimento
La dimensione congiunturale è ricca di incognite, che nelle prossime settimane potranno trovare, a patto che nasca un governo Barnier, almeno parziale scioglimento. Sul piatto vi sono però anche due questioni aperte di natura sistemica.
La prima riguarda l’evoluzione delle culture politiche nel contesto francese, ma anche in quello più ampio europeo e ruota attorno al macronismo e alla sua parabola discendente. Nato come convinzione che le categorie di destra e sinistra non siano più in grado di rispondere alle domande del XXI secolo, sorta di “terza via” del III millennio o ancora riproposizione di un giscardismo centrista adattato al XXI secolo, questa logica di governo del Paese calato dall’alto, sfruttando le istituzioni della “monarchia repubblicana” (e la sua residua presenza di grand commis d’état) e la progressiva “devoluzione” verso l’Ue di una serie di prerogative nazionali all’interno della competizione globale, il macronismo si sta inabissando con il suo inventore.
La seconda è più interna al contesto francese, interroga il semipresidenzialismo e nello specifico il suo mantenersi in bilico tra sistema presidenziale e parlamentarismo razionalizzato, nel rapporto tra Eliseo e Matignon. Quella che si profila all’orizzonte non è certo una “coabitazione classica”, ma non è nemmeno un “accordo di governo”, né tanto meno un “patto legislativo”. Dall’Eliseo Macron ha parlato di una “cooperazione esigente” o, espressione da lui preferita, di una “coesistenza esigente”. Il nuovo Primo ministro ha azzardato, nel suo primo intervento televisivo, una formula che avrebbe fatto trasalire il generale de Gaulle e avrebbe, al contrario, incontrato la condiscendenza di Michel Debré, architetto insoddisfatto dell’importazione del modello britannico: “Il presidente deve presiedere, il governo deve governare”. L’uomo che due volte salvò la Francia sciolse il dilemma, ricordando che il potere esecutivo promana dall’unico centro eletto direttamente dai cittadini francesi, cioè dall’Eliseo. Nelle acque tempestose di questo folle 2024, Emmanuel Macron ha, non si sa quanto volutamente, riaperto anche questo dibattito.
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