Nonostante le scarse fortune politiche dell’ambientalismo italiano e a dispetto delle tesi pessimistiche sul declino della partecipazione giovanile, lo scorso 27 settembre centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze sfilavano in corteo nelle strade del nostro Paese. Si è trattato di una delle maggiori mobilitazioni tra quelle svoltesi in Europa occidentale, tale da richiamare l’attenzione della stessa Greta Thunberg. In piazza c’erano moltissimi di quei sedicenni e diciassettenni al centro del breve quanto timido dibattito che si è aperto subito dopo attorno alla proposta di concedere il diritto di voto a partire dai sedici anni. L’idea, lanciata dall’ex premier Enrico Letta in un’intervista a "Repubblica", ha raccolto l’opinione favorevole di esponenti politici di quasi ogni partito, dal Movimento 5 Stelle al Pd sino allo stesso Salvini. Per qualche giorno la politica italiana è ritornata quindi a discutere di giovani, una fetta di elettorato tante volte descritta tanto come inconsistente da un punto di vista demografico quanto come indeterminata sul piano politico.
Che portare alle urne qualche centinaia di migliaia di minorenni possa rappresentare un vantaggio per alcuni degli attuali partiti è una questione aperta. Lo spazio in altri Paesi occupato dai Verdi resta in Italia poco presidiato, pur rappresentando un mercato elettorale interessante, soprattutto in una fase come l'attuale in cui i temi ambientali catturano l’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito economico. Se si guarda alla storia del voto giovanile nel nostro Paese, si può notare come, a differenza del periodo precedente, nella Seconda Repubblica non si sono avuti grossi scossoni o fratture generazionali tali da produrre effetti significativi sui risultati elettorali. L’unico attore in grado di occupare lo spazio politico giovanile è stato il Movimento 5 Stelle nel 2013, ma questo tentativo di fidelizzare il voto dei neo-elettori si è fortemente ridimensionato a distanza di soli cinque anni, come mostrano le indagini post-elettorali (Itanes, Vox Populi. Il voto ad alta voce, Il Mulino, 2018). Un recente sondaggio Swg ha fotografato l'attuale situazione di stallo: a fronte di un’eventuale chiamata alle urne, il voto dei sedici-diciottenni risulterebbe perfettamente trasversale agli schieramenti politici, dividendosi tra giallo-rossi e centrodestra. Questo risultato non deve sorprendere. Se il centrosinistra e la sinistra, ma anche il M5S, possono rivendicare una maggiore vicinanza ideologica alle rivendicazioni alter-global dei giovani per l’ambiente, è innegabile che altri valori diffusi nella cultura giovanile (e non solo) come l’importanza dell’auto-realizzazione, dell’auto-imprenditorialità, della disintermediazione dalle istituzioni tradizionali possano essere legittimamente agitati dal versante opposto, senza considerare le spinte sovraniste, identitarie, scioviniste che ambiscono a diffondersi tra l’intera popolazione.
Il vero punto della questione è che i giovani oggi fanno fatica a vedere riconosciuti gli elementi di innovazione e le richieste di cambiamento di cui si fanno portatori. La crisi del legame tra elettori e partiti, l’assenza di riferimenti e forme di identificazione stabili hanno avuto un impatto negativo sulle nuove generazioni, condizionando il processo di maturazione della coscienza civico-politica. I partiti hanno perso rilevanza in quanto ambienti attraverso cui si formano e si rinforzano le preferenze elettorali in via di costituzione, la classe politica resta ancora poco attenta alle policies giovanili e solo raramente è in grado di attivare processi di mobilitazione duraturi per questa fascia di popolazione. Non deve quindi sorprendere che, in assenza di esperienze forti di socializzazione (oltre ai partiti falliscono anche la famiglia e la scuola), trovi spazio la figura mediatica di Greta e istanze trasversali sul piano ideologico quali quelle ambientali. Un recente sondaggio Eurobarometro segnala come a trainare la crescita della partecipazione elettorale alle elezioni europee del 2019 siano stati proprio gli elettori più giovani, quelli che hanno votato per la prima volta. Tra i fattori decisivi per l’attivazione avrebbero assunto un’importanza centrale la volontà di cambiare le politiche su economia e crescita, sul clima, sui diritti umani e la democrazia. Evidentemente, di fronte al ritorno di centralità dei temi globali nell’immaginario politico giovanile (mancava, forse, almeno dalla generazione no-global del 2001), la posta in gioco non appare tanto quella di votare prima quanto di essere ascoltati e riuscire a incidere.
Una prospettiva interessante sul tema è offerta da una ricerca europea recentemente conclusa, dal titolo Spaces and Styles of Participation (Partispace, i cui principali risultati sono contenuti nel volume Young People and the Struggle for Participation, Routledge, 2019). Nell’ambito delle attività del progetto, studiosi di otto Paesi diversi hanno analizzato le modalità di partecipazione dei giovani under 30 nei contesti urbani (città di medie dimensioni, tra cui Bologna), soffermandosi anche sulle esperienze politiche più formali svolte all’interno delle arene partecipative ufficiali: Parlamenti giovanili, Consigli studenteschi, centri di aggregazione comunali e altri luoghi pubblici. Il lungo lavoro di interviste e osservazione etnografica restituisce un’immagine in chiaroscuro della politica istituzionale, che viene descritta più come un sistema “compresso” che come una palestra di democrazia. La maggior parte dei giovani contattati dal gruppo di ricerca è apparsa scettica sull’efficacia e la rilevanza che le forme organizzate della partecipazione possono avere sulle loro vite. Gli spazi in cui esercitano l’attività politica appaiono in qualche modo controllati, in quanto quasi sempre situati vicino alle istituzioni adulte. I giovani sono “badati”, si sentono detentori di potere solo quando si presentano in partnership con adulti e raramente hanno voce nel determinare gli scopi organizzativi e gli obiettivi. Molti degli intervistati sottolineano la contraddizione tra ciò che viene insegnato sulla democrazia e le istituzioni che non incoraggiano a esercitare queste competenze. Il processo di costruzione dell’agenda setting, in particolare, è indicato come esemplificativo della discrepanza tra obiettivi dei giovani e quelli ufficiali. Anche nei Paesi dove la partecipazione risulta maggiormente promossa a livello istituzionale, l’agenda si basa su regole, ruoli e procedura di routine, con un alto tasso di burocratizzazione, che inibisce le iniziative autonome. Ogni pratica è inquadrata in uno schema prodotto all’esterno dello spazio politico giovanile, secondo un approccio pedagogico che indica ai giovani la strada giusta per diventare buoni cittadini, ma che al contempo promuove un’idea di politica “sanitarizzata”, in cui i temi non consensuali, la questione del potere e della sua riproduzione vengono de-tematizzati o tenuti nascosti.
Queste osservazioni critiche raccolte nella ricerca Partispace possono essere agevolmente esportate al tema del voto e al flebile dibattito che ne è seguito. Se anche producesse un qualche effetto, la proposta di ampliare il corpo elettorale è comunque partita dalla politica e non dai giovani. Potrebbe non essere sufficiente né a far aumentare la partecipazione né a favorire una scelta di voto più consapevole in assenza di condizioni tali da modificare le percezioni che hanno i giovani del mondo politico ufficiale e della possibilità di cambiarlo. Rischierebbe di essere il prodotto di una cultura debole della partecipazione, non rispondendo alla domanda di senso e al dilagare dello scetticismo. La partecipazione, da attivisti come da semplici cittadini, non può avvenire all’interno di contenitori vuoti costruiti da altri e secondo logiche esclusivamente procedurali o cooptative, ma deve riuscire a produrre effetti reali favorendo processi autonomi, nei luoghi, sui temi e con le modalità più prossimi ai giovani.
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