Questo articolo fa parte dello speciale Un Piano per il Paese
Le privatizzazioni e il new public management degli anni Novanta, il ventennio berlusconiano-tremontiano delle liberalizzazioni ad personam, le riformette renziane punitive delle province, delle camere di commercio e dei corpi intermedi sono unite da un continuum: hanno svuotato lo Stato nelle sue articolazioni essenziali, e soprattutto lo Stato locale. Affidando al mercato l’impossibile compito di auto-regolarsi, si sono premiate poche lobbies (burocrazie centrali, ferrovie, banche e finanza, grandi imprese con partecipazione pubblica, Cdp, utilities) e disarticolato il sistema pubblico allargato, soprattutto a livello intermedio e locale. Infine, la governance basata sull’emergenza e sulla straordinarietà ha finito per archiviare i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale cui pure ci si è ispirati-almeno nella retorica pubblica- all’inizio degli anni 2000.
Adesso l’idea giusta e indispensabile di digitalizzare e di rendere sostenibile l’apparato produttivo pubblico e privato, cui dedicare ingenti risorse, avviene nel vuoto. La pubblica amministrazione, dopo la cura dimagrante del patto di stabilità, è composta di personale anziano e poco istruito perché non sono state immesse risorse nuove, giovani e qualificate, e ispirate alla parità di genere. Il sistema tecnologico della pubblica amministrazione è in gran parte obsoleto, mancano le infrastrutture e le persone. I comuni piccoli e medi sono privi di risorse umane, quelli grandi soffrono di rachitismo (sono troppo piccoli per gestire territori ampi e funzioni integrate complesse). Eppure ad essi si rivolge gran parte dello sforzo del Pnrr. Come infine superare il deficit, che vede le imprese destinatarie di misure di regolazioni (ambientali, sociali, di due diligence e di reporting non finanziario) bisognose di assistenza, guida e valutazione da parte delle politiche pubbliche?
Il Pnrr deve puntare a internalizzare e localizzare, alle diverse scale territoriali (città, sistemi locali, regioni, reti transregionali), quanto è stato esternalizzato e delocalizzato nei decenni passatiOccorre passare da politiche distributive a politiche costitutive. Cioè da mera elargizione di risorse a institution building, non con leggi ma con processi volontari, volti a quella che possiamo chiamare cooperazione strategica. Che va organizzata e premiata. Per contribuire a fornire qualche proposta, ritengo occorrerebbe rendere esplicito che il Pnrr deve puntare a internalizzare e localizzare, alle diverse scale territoriali (città, sistemi locali, regioni, reti transregionali), quanto è stato esternalizzato e delocalizzato nei decenni passati. Questo deve avvenire in due direzioni.
1. Dal lato delle amministrazioni pubbliche. Definire patti per il lavoro e per il clima che coinvolgano gli enti pubblici territoriali, il sistema delle imprese e le infrastrutture cognitive dei territori (scuola e università, ricerca, sistema sanitario e del Welfare). Il compito dei patti è di costruire nei territori l’ultimo miglio delle politiche del Pnrr, di fissarne e monitorarne in itinere la realizzazione, di sviluppare strategie operative e concrete misurazioni del nuovo modello di sviluppo verde e digitale.
2. Dal lato delle imprese. Sviluppare le risorse umane e le competenze tecniche necessarie per analizzare e indirizzare il cambiamento verso parametri di sostenibilità, partecipazione, diversità e resilienza,property rights della conoscenza allocati anche a stakeholders diversi dalla proprietà e dal management (mi riferisco alla classe creativa che concorre alla creazione di conoscenza), premi e incentivi per dipendenti e fornitori, diritti e brevetti, patti di cooperazione di filiera, gestione congiunta di beni di comunità, sostenibilità ambientale dei processi industriali.
Se così implementato, il Pnrr diverrebbe una palestra per il cambiamento dei nostri territori, sviluppando valore pubblico territoriale: un concetto-guida da realizzare, ancora ignoto in Italia. Questo potrà avvenire innescando un processo sequenziale e iterativo simile ai piani strategici delle grandi città e dei loro territori che si sono sperimentati in Europa a partire dagli anni Ottanta e Novanta (da Barcellona a Lione, da Londra e Parigi, da Stoccarda a Stoccolma) e assai poco in Italia. Questi hanno una proiezione nel tempo medio-lunga, 20-25 anni, e una chiara definizione di obiettivi connettivi e strategici: addizione di funzioni a valore aggiunto, nuove funzionalità regionali, sostenibilità ambientale, sistemi intelligenti, mescolanza sociale e inclusione, parità di genere e sviluppo demografico.
Il Pnrr potrebbe diventare una palestra per il cambiamento dei nostri territori, sviluppando valore pubblico territoriale: un concetto-guida da realizzare, ancora ignoto in Italia
Finora questo è stato possibile da parte di forti sistemi urbani metropolitani, il che ha reso evidente lo svantaggio accumulato dai territori di mezzo e dai sistemi di vecchia industrializzazione, rispetto alle capitali nazionali e regionali, nelle connessioni e nell’informazione. Il carattere metropolitano di molti luoghi della rivoluzione informatica indica che l’elemento decisivo di sviluppo è stato il grado di capacità di creare sinergie basate su conoscenza e informazione. Si esprime nei centri metropolitani inoltre una contraddizione, tra la mobilità del capitale e la fissità dello Stato. Lo Stato nella sua natura di “censore”, di censimento della popolazione su un territorio, è in tensione permanente con il capitale mobile. Di qui le manifestazioni più recenti di crisi fiscale e debitoria dello Stato, che non riesce a estrarre dal capitale mobile (vedi piattaforme digitali globali) un reddito fiscale adeguato ai costi di riproduzione e di controllo sociale che lo Stato esercita sui suoi territori, a partire da quelli “lasciati indietro”.
Invece nel prossimo trentennio, saranno proprio i territori “in between”, i corridoi e le aree meno sviluppate a rappresentare la vera riserva strategica. Da loro dipenderà se il cambiamento climatico sarà possibile, se la giustizia ambientale sarà raggiunta, se l’inclusione sociale sarà realizzata. Superando la trappola i cui stanno i territori di mezzo, e dando un nuovo significato alle regioni marginali e al concetto stesso di margine: non più visto come “negativo” ma come “non-ancora”, come “possibile”. Un aspetto di epistemologia dello sviluppo su cui non si è sin qui lavorato a sufficienza, eppure implicito in ogni discorso di resilienza.
In questo ambito europeo, i nostri Mezzogiorni, i nostri Mediterranei, e le aree interne trascurate saranno altrettanti atout.
Il Pnrr è troppo a breve (2026) per misurare questi traguardi, ma va considerato il primo step di un processo più lungo proiettato al 2050: che è del resto l’orizzonte degli obiettivi ambiziosi fissati a Parigi in campo climatico, e tradotti nel meta-obiettivo della carbon neutrality. Una nuova generazione, la prossima, dovrà essere messa in grado di realizzare questo passaggio, e il Pnrr non potrà che essere una misura transitoria in questa direzione.
Che altro significa, altrimenti, Next generation Eu?
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