Questo articolo fa parte dello speciale Partito democratico
E se uscissimo da questo pastrocchio della “sinistra plurale”? Capisco di mettermi in una posizione eretica per il mainstream, ma sono convinto che la prospettiva di una sinistra che perde perché non sa fare coalizioni sia frutto di una considerazione non solo puramente aritmetica, ma anche immobilista del nostro quadro politico.
Aveva ragione Veltroni con la sua proposta “maggioritaria” per il Pd, anche se fu il primo a non prestarvi fede accettando un’alleanza con quell’ectoplasma che si è poi visto essere la cosiddetta “Italia dei valori” di Di Pietro (dimenticata da tutti e senza rimpianti perché non ha lasciato neppure un briciolo di eredità spendibile). Ovviamente non si tratta di rifiutare la costruzione di un soggetto che accolga nel suo seno una pluralità di istanze e problematiche che si sono manifestate in questi anni. Si tratta semplicemente di non riconoscere che per accogliere quelle istanze è necessario dare spazio e ruolo istituzionale ai vari gruppi o gruppetti che si sono costituiti sfruttando quelle bandiere (trasformate per lo più in bandierine).
Se si continua con la logica delle confederazioni fra sigle non si andrà lontano: serviranno solo perché la componente più cospicua si dissangui per concedere posti e posizioni a una serie di personaggi, alcuni semplicemente inventati da un sistema mediatico che per affermare la sua egemonia ha bisogno di navigare in uno stagno con un discreto numero di isolette che può controllare.
Il partito del progresso, che va fondato perché sinora non c’è (siamo sempre alla rimasticatura di quel che c’era), deve essere costruito su una proposta che si elabora in quanto tale, senza chiamare a parteciparvi chi è disposto a venire solo se gli si garantisce la sua riserva indiana. Tutti ovviamente sono benvenuti, se accettano di entrare nel nuovo soggetto di cui si riconosce la “sovranità”. Le alleanze elettorali, eventualmente, si faranno dopo e solo se chi si allea converge su un programma che è già stato impostato e che risponde a un’analisi non negoziabile. I progetti puzzle non funzionano, lo si è già visto più volte.
Il partito del progresso, che va fondato perché sinora non c’è (siamo sempre alla rimasticatura di quel che c’era), deve essere costruito su una proposta che si elabora in quanto tale, senza chiamare a parteciparvi chi è disposto a venire solo se gli si garantisce la sua riserva indiana
Se non c’è fiducia di poter attirare a sé il consenso che oggi si frammenta in molti rivoli è inutile pensare che si possa arrivare a creare un partito della sinistra rinnovata. Bisogna però partire dall’idea di attirare il consenso della gente, non quello dei capetti che hanno costruito quella frammentazione. A sinistra ci sono anche persone di valore, che però non hanno capito i tempi nuovi e che di conseguenza inseguono il sogno di riproporre quel che non sono riusciti a fare quando è stato il loro momento. Gli attori politici di qualità che nelle fasi recenti hanno ritenuto di marginalizzarsi per sfuggire alla confusione delle varie fusioni a freddo succedutesi a sinistra (ce ne sono: non molti, ma ce ne sono) saranno convinti a entrare nel nuovo soggetto perché si renderanno conto che lì potranno veramente giocare un ruolo importante e trovare l’occasione per dare un contributo significativo.
Non è un’operazione semplice, ma va fatta sganciandola dal problema della sistemazione di un Pd uscito a pezzi da una stagione più che confusa. Un partito di quel tipo ha logiche sue consolidate che è impossibile cambiare in poco tempo, mentre una sua riorganizzazione è urgente perché, piaccia o meno, deve avere un ruolo in questo Parlamento e non ci sarà se rimane a lungo nella condizione di un campo di battaglia in cui entrano tutte le ambizioni alla visibilità e tutti i cedimenti al mood imposto dai talk show. Dunque è giusto che il Pd faccia nel più breve tempo possibile un suo congresso di stabilizzazione (chi lo vuole in tempi lunghi gioca solo per consolidare il suo correntismo).
Dico subito che l’idea di sciogliere il Pd per dar vita a un soggetto nuovo è ingenua e irrealistica. Abbiamo già attraversato la fase della ricerca della “Cosa rossa (1 e 2)” senza cavarcene molto. In definitiva si è sempre finiti col cambiare nome al vecchio Pci, mantenendo più o meno la vecchia ditta e semplicemente cooptando nel consiglio di amministrazione i tradizionali ceti dirigenti formati dentro altre frange della sinistra (per lo più ex democristiani di sinistra). Quando si è voluto fingere di aprire al nuovo si sono cooptati un po’ di agitatori giovanili intronizzati dai media amici (amici si fa per dire). Bisogna dare per scontato che, come fece Balir col Labour e come sta facendo Starmer, si deve puntare realisticamente a un “New Pd”, perché è stupido buttare via le tradizioni radicate e gli insediamenti elettorali (pur in crisi, ma recuperabili) che non vanno identificati con le oligarchie che se ne sono impadronite.
A latere deve invece aprirsi una sede in cui si lavori alla costruzione di un partito progressista, con una sua lettura di cosa significhi oggi “progresso”, con la pazienza che richiede un’operazione di realismo riformista che rifugge dallo sventolare bandierine e slogan, con una riflessione profonda sulla transizione storica che stiamo vivendo (la mancanza di questa consapevolezza, che può venire solo dalla storia di lungo periodo - avessimo ancora Paolo Prodi! – è una delle ragioni per cui non si riesce a capire le “leggi” che governano questa fase).
Deve invece aprirsi una sede in cui si lavori alla costruzione di un partito progressista, con una sua lettura di cosa significhi oggi “progresso”, con la pazienza che richiede un’operazione di realismo riformista che rifugge dallo sventolare bandierine e slogan
So bene che adesso c’è un dibattito per decidere se il “new Pd” o addirittura il nuovo partito progressista da far nascere come l’araba fenice (ma ricordiamoci: che ci sia ciascun lo dice/ dove sia nessun lo sa) debba essere liberale o socialdemocratico, se non addirittura socialista. Io sarei per lanciare modificandolo il vecchio slogan coniato per la svolta della Spd a fine anni Cinquanta: “Liberale quanto è utile, socialista quanto è necessario”. Se preferite torniamo a parlare di liberal-socialismo come fecero i fratelli Rosselli, o di liberalismo inclusivo come hanno fatto di recente Salvati e Dilmore. Qualunque sia la veste retorica da dare all’operazione, la sostanza è che serve una cultura che converga su questi punti: 1) il sistema costituzionale dell’Occidente è liberale nel suo impianto e la sua economia è fondata su una dialettica che consenta l’incremento della ricchezza, perché altrimenti non c’è niente da distribuire, né ci sono i mezzi per impostare un avanzamento razionale del sistema; 2) la sfida che questo sistema ha davanti è promuovere un’eguaglianza che consenta a ciascuno di raggiungere i migliori livelli permessi dalla sua “fisionomia” personale, mentre al tempo stesso si fonda sulla solidarietà condivisa che sostiene al massimo le debolezze che inevitabilmente esistono in tutti i contesti storici.
Quando si sarà elaborata questa cultura e la si sarà fatta precipitare in una proposta di governo della nostra contingenza storica (governo che si può avere anche se non si siede a Palazzo Chigi: le opposizioni, specie in un sistema pluralista di distribuzione dei poteri, reggono anch’esse il sistema) si potrà invitare “il popolo” a darle forza e consenso proponendo il nuovo partito del progresso. Ma lo si farà avendo la qualità e la credibilità per designare una “egemonia” di quelle analisi e proposte, lasciando perdere le fantasie sulla “sinistra plurale”.
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