“Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia, mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia”. Così l’articolo 94 della Costituzione ribadisce il particolarissimo bicameralismo italiano, nato a in un Paese ancora profondamente devastato dalla guerra, con un’Assemblea costituente dominata dall’esigenza di un garantismo fortissimo. Come disse Giuseppe Dossetti nell’intervista che rilasciò a Leopoldo Elia e Pietro Scoppola nel 1984, “il bicameralismo, un garantismo eccessivo, perché ancora si era sotto l’ossessione del passaggio alla maggioranza del Partito comunista” (A colloquio con Dossetti e Lazzati, 2003, p. 63). Un bicameralismo che, secondo molti osservatori, porta con sé i germi di quell’ingovernabilità sancita, proprio in questi giorni e forse irrimediabilmente, dalla legge elettorale fortemente voluta dal governo Berlusconi III e dall’allora ministro Calderoli (che, per inciso, è lo stesso appena nominato vicepresidente del Senato). Era il 1o novembre 2006, quando Giovanni Sartori discuteva del “Porcellum” da eliminare: ma sei anni non sono bastati per porvi rimedio. Con in particolare l’ultimo periodo, quello intercorso tra l’avvio del governo di Mario Monti (novembre 2011) e le sue dimissioni (dicembre 2012), gettato alle ortiche.

L’assurda, seppure tecnicamente del tutto comprensibile, impasse in cui si trova il nostro sistema politico-istituzionale appare dunque largamente dovuta a questa infelice sovrapposizione, tra una Costituzione che tanto enfaticamente (e con una retorica a volte insopportabile) amiamo definire “la più bella del mondo”; e le modifiche apportate nel 2005 alla legge che definisce i criteri di attribuzione dei seggi nelle due Camere.

Con un equilibrio tra le forze presenti in Parlamento, in Senato specificamente, che sembra rendere impraticabile la fiducia a qualsivoglia governo politico, l’attenzione è ora vivissima sulla figura del capo dello Stato. Proviamo a riepilogare. “Trenta giorni prima che scada il termine, il presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica” (art. 85, Cost.). Ciò avverrà il prossimo 15 aprile, vale a dire fra tre settimane. Questo significa che dal momento in cui abbiamo conosciuto l’esito disgraziato del voto (vista l’assenza di una maggioranza chiara) al momento in cui deputati e senatori affronteranno la delicata questione, saranno trascorsi 48 giorni. Un’eternità. Se tanto dobbiamo aspettare, però, almeno che ne valga la pena. Perché dal prossimo capo dello Stato dipenderà tantissimo, sia nel caso in cui nel frattempo un governo si sia avviato, sia nel caso che foglia non si sia mossa, e che dunque a palazzo Chigi risieda ancora un governo in carica solo per gli affari correnti.

Quale presidente, dunque? Il ricatto (trasparente, è vero, ma non per questo meno ignobile) con cui il centrodestra ha esposto la propria posizione in merito rischia di eliminare a priori nomi importanti. Mentre è tutta da verificare la disponibilità del nuovo soggetto politico dominato dal copione teatrale del signor Grillo di appoggiare candidature che rispondano in pieno al profilo di cui oggi la Repubblica ha bisogno per la prima carica dello Stato. Come è stato ampiamente illustrato (da ultimi, in un libro di imminente pubblicazione al Mulino, da Vincenzo Lippolis e Giulio Salerno, autori di La repubblica del Presidente) il settennato di Giorgio Napolitano ha messo in evidenza la grande valenza politica della carica. Chi è stato educato all’idea di una presidenza dal fortissimo valore simbolico ma esclusivamente di garanzia e rappresentanza, dovrebbe ormai averne compreso a sufficienza anche il valore più strettamente politico. Pur nel totale rispetto della Carta costituzionale, in particolare in situazioni di crisi, la regia del Quirinale si è rivelata e si rivelerà in futuro decisiva. Almeno a proposito di questa elezione così importante, sarebbe dunque ora di abbandonare definitivamente ogni comportamento dettato dalla logica dei veti incrociati. Giorgio Napolitano ha più volte ribadito, da ultimo anche con una certa seccata fermezza, la propria indisponibilità a un reincarico, pur accompagnato da un patto non scritto di impegno a termine: “La carta di identità conta”. Parole che ricordano a tutti come, se non altro per ragioni di tipo naturale, uomini con grande senso dello Stato della sua generazione non si possono più cercare. Finita l’epoca in cui ci si appellava ai padri costituenti o alla generazione immediatamente successiva, è giunta l’ora di cercare qualcuno con analogo senso dello Stato, grande competenza istituzionale, storia personale sgombra da impegni politici in prima persona giudicabili a ragione compromettenti. Ci piaccia o meno, le logiche popolari che premiano una nuova politica a scapito della vecchia – sia la prima meglio della seconda andrà dimostrato dai fatti – non tollererebbero personalità invischiate nella Repubblica dei partiti di scoppoliana memoria. Qualcuno, tra chi era un tempo del tutto avulso a simili idee, comincia a ipotizzare, tra le riforme possibili, quella della elezione diretta del capo dello Stato. Non sappiamo se e quando una simile, radicale riforma costituzionale potrà essere messa in cantiere. Ciò nonostante, da subito, sarà bene cercare una personalità al di sopra delle parti che possa contare anche su un gradimento popolare, o che quantomeno non risulti sgradita a priori. Finita l’epoca dei padri costituenti è il momento di trovare, in fretta, un padre ri-costituente per la nostra martoriata Repubblica.