Tra gli aspetti che gli italiani residenti in Regno Unito potevano tradizionalmente annoverare come valore aggiunto del vivere nella terra di Albione e, forse, come motivo di conforto per la lontananza dalla (nonostante tutto) amata madrepatria, vi erano la prevedibilità e la stabilità della politica britannica. Caratteristiche, queste, che hanno contribuito negli anni a fare di Westminster e del suo sistema elettorale di tipo uninominale secco un modello conclamato di stabilità governativa (sebbene sia lungi quest’ultimo dal mettere tutti d’accordo, considerato il forte effetto distorsivo esercitato sulla rappresentanza). Il che non implicava assenza di pathos politico. Tutt’altro. Personalmente ho sempre trovato affascinanti i focosi ma raramente triviali dibattiti alla Camera dei Comuni, esemplificazione della predilezione inglese per la dialettica e lo scontro verbale schietto e appassionato. Un’inclinazione riflessa nella geografia di Westminster, dove i banchi dei due schieramenti sono disposti gli uni di fronte agli altri, il governo tradizionalmente alla destra dello Speaker, l’opposizione alla sua sinistra, a simboleggiare la diametrale diversità di vedute e facilitarne il duello orale.

Brexit ha contribuito a scalfire questo carattere della politica britannica, dando maggiore spinta alla tendenza, iniziata già da qualche anno, a elezioni non solo più frequenti, ma dagli esiti spesso sorprendenti (per un approfondimento si veda Bressanelli 2018). In un Paese che è solito recarsi alle urne ogni quattro/cinque anni e dalle ben nota stabilità degli esecutivi, fa specie che dal 23 giugno 2016, giorno del referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Ue, si siano verificate ben due votazioni generali (e la prima di esse a due anni soltanto dalle elezioni politiche del 2015) e si siano succeduti ben quattro Primi ministri. L’ultimo (o meglio, l’ultima, se i sondaggi prevedono bene) si appresta a prendere potere fra qualche giorno, il 5 settembre, quando i membri del Partito conservatore consegneranno il loro verdetto circa chi andrà a sostituire Boris Johnson, il cui governo non ha resistito all’onda d’urto del Partygate, l’ennesima, e questa volta fatale, crisi che ha investito Johnson nel corso del suo mandato. Quest’ultimo lascia Downing Street dopo tre anni e 38 giorni, 27 giorni in più rispetto alla sua collega di partito, Theresa May, e con una eredità ben più controversa. Basti pensare che al cuore dello scandalo vi è l’accusa, ormai conclamata, di aver ospitato festini all’interno di sedi governative quando il Paese faceva i conti con i sacrifici imposti dal lockdown, accusa che neanche l’ex sindaco di Londra, il cui aplomb è ben noto, è riuscito a dribblare.

Fatte queste premesse, proverò qui a fornire una breve panoramica sul contesto politico, economico e sociale che il prossimo inquilino di Downing Street si appresta a ereditare. Per poi disegnare un breve profilo di Mary Elizabeth Truss, più concisamente nota come Liz Truss, accreditata dai sondaggi quale favorita nella corsa alla leadership e, giocoforza, probabile nuovo Primo ministro.

Si va verso una crisi economica profonda, i cui effetti devastanti saranno avvertiti da tutti ma soprattutto dalle famiglie a reddito più basso

Il termine “disastroso” coglie bene lo stato in cui versa il Regno Unito nel frangente attuale. Con un’inflazione che si stima possa raggiungere il prossimo anno numeri a due cifre (addirittura il 22%, secondo una recente indagine di Goldman Sachs), alimentata dal rapido aumento dei costi energetici anche in seguito all’invasione russa dell’Ucraina e non compensata da un adeguato incremento reale dei redditi, e i riverberi della maggiore aliquota Irpef introdotta nel 2021, si va verso una crisi economica profonda, i cui effetti devastanti saranno avvertiti da tutti ma soprattutto dalle famiglie a reddito più basso - come stimato dall’Institute for Fiscal Studies. A questi elementi si aggiungano un settore pubblico e dei servizi essenziali che vacilla tra gli scioperi di varie categorie (dai portuali e i ferroviari ai postini e gli avvocati), in quella che è stata ribattezzata dalla stampa inglese “l’estate del malcontento”; e la crisi ormai endemica del sistema sanitario nazionale (Nhs), a cui la pandemia ha inflitto l’ennesimo colpo, approfondendo criticità preesistenti quali carenza di personale e liste d’attesa infinite anche per prestazioni sanitarie urgenti.

Certo le difficoltà che si profilano per il Regno Unito non costituiscono un’anomalia se confrontate con quelle dei suoi vicini continentali, anch’essi sfidati su vari fronti, prima fra tutti l’instabilità geopolitica e i contraccolpi di questa su economia nazionale e tenuta sociale. A minacciare però le condizioni per la tempesta perfetta ritorna sempre lei, la Brexit. Le crisi succitate si innescano su un contesto economico, politico e sociale già fortemente compromesso. A tal riguardo, va sottolineato che il drastico aumento del costo della vita ben precede il conflitto in Ucraina. Come denunciato da un autorevole studio pubblicato lo scorso giugno, l’uscita dall’Ue ha impattato fin da subito redditi e investimenti, molto prima che pandemia e instabilità internazionale intervenissero a complicare la situazione.

Ma il drastico aumento del costo della vita precede il conflitto in Ucraina: l’uscita dall’Ue ha infatti avuto fin da subito ub forte impatto su redditi e investimenti

La ciliegina su quella che sembra essere una torta già avariata è la crisi del liquame grezzo. Come se non bastassero scioperi, tetre prospettive, una guerra all’orizzonte e cospicue difficoltà nel prenotare una visita medica, la “glorious British summer” è stata disturbata dalle acque reflue non trattate, rilasciate nei mari del Regno Unito con grande orrore dei bagnanti, indignazione della società civile e moniti da parte di importanti figure istituzionali. Le aziende responsabili di questa operazione si sono difese chiamando in causa eventi climatici avversi. Una difesa che non convince quanti reputano come principale colpevole di queste sempre più frequenti pratiche l’abbandono degli standard europei in materia di tutela ambientale, ulteriore vittima – ça va sans dire - del divorzio con l’Ue (si rimanda in particolare alla recente protesta sollevata da tre europarlamentari francesi).

Su questo sfondo si staglia la figura di Liz Truss, attuale ministro degli Esteri e delle Pari opportunità. Eletta al Parlamento di Westminster nel 2010, Truss inizia il suo impegno politico nelle fila dei Liberal Democrats per abbracciare definitivamente i Tories nel 1996. Un aneddoto curioso è quello che vede Truss, all’epoca diciannovenne, promuovere una mozione anti-monarchica nel corso della conferenza dei Lib Dem del 1994. Posizione da allora abbandonata, è chiaro, ma che ha creato qualche imbarazzo alla protagonista a seguito della circolazione del video dell’evento da parte di Bbc Newsnight. Ma se cambiare opinione è lecito, Truss viene accusata di mancare di una visione politica coerente e genuina, a differenza della da lei tanto ammirata Margaret Thatcher. Rileva a riguardo l’ultimo cambio di casacca: dopo aver sostenuto il Remain nel corso della campagna referendaria del 2016, Truss non ha esitato a saltare a piè pari sul carro del vincitore, scelta che la vedrà ricompensata con incarichi governativi di sempre più alto spessore durante il governo dimissionario. Se i sondaggi elettorali sono corretti e la maggioranza dei circa 180.000 membri del suo partito la sceglierà come leader, Liz Truss si troverà in mano le chiavi di Downing Street. Ma, con esse, anche non poche gatte da pelare, considerate le circostanze.

La sua posizione contro l’intervento statale è ben nota in patria. A differenza del suo sfidante, l’ex Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, Truss depreca la proposta di affrontare la crisi dei prezzi elargendo sussidi. Il suo piano prevede un attacco alla tassazione, in linea con il principio libertario dello “small State” tanto caro alla destra più estrema del Partito conservatore. (Si noti che nel 2012 Truss pubblica per Palgrave Macmillan il libro Britannia Unchained insieme a quattro colleghi di partito, libro che si può considerare il manifesto della “new Tory right”.) Una visione insidiosa alla luce dello stato di salute di servizi pubblici essenziali e delle condizioni in cui già versano i ceti meno abbienti, principali fruitori di questi servizi. Ma lo stato delle finanze pubbliche non è il solo scoglio che il nuovo Primo ministro si troverà ad affrontare. L’altro, più a medio-lungo termine, riguarda una delle eredità di Johnson: la maggioranza schiacciante in Parlamento. Quegli 80 seggi che l’abile Johnson riuscì a conquistare facendo breccia nel cosiddetto “red wall”, l’insieme dei collegi elettorali concentrati principalmente nel Galles e nel Nord dell’Inghilterra, tradizionalmente laburisti.

Il nuovo inquilino di Downing Street dovrà ponderare bene le sue scelte e le conseguenze di esse sui vari gruppi della popolazione considerata la volatilità del supporto di questi nuovi elettori e le esigenze e aspettative dei conservatori storici. Votanti che per collocazione sociale nutrono interessi molto distanti tra loro essendo i secondi tradizionalmente benestanti e concentrati nelle zone più ricche del Paese.

Non resta che aspettare i prossimi giorni per scoprire se i sondaggisti questa volta ci hanno visto giusto. Tuttavia, per avere un senso più chiaro della direzione che il Regno Unito si appresta a intraprendere, al di là di slogan e promesse elettorali, bisognerà attendere qualche tempo in più. Non solo perché il Parlamento chiude i battenti dal 23 settembre al 16 ottobre per la consueta stagione delle conferenze di partito, ma anche perché le visioni formulate dai candidati premier nel corso di quest'estate dovranno fare i conti con realtà e limiti vari prima di essere tradotte in politiche. Certo è che le sfide all’orizzonte sono tante. Chiunque prenderà il testimone di Johnson avrà davanti a sé non poco liquame da spalare, metaforicamente parlando e non.