Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Un mese di guerra oggi, dal 24 febbraio. O forse ci ritroveremo costretti a dire il primo mese di guerra. Quanto può succedere in un mese: città devastate, metà della popolazione di un Paese costretta ad abbandonare tutto, un enorme flusso di profughi, in gran parte donne e minori, usciti forzatamente e in poche settimane dall’Ucraina. Quattro milioni, secondo le stime fornite dall’Unhcr. E tante vittime, tra i civili, tra chi in Ucraina combatte contro l’aggressore, tra i soldati russi.
Tanto può accadere in un mese soltanto. Nel frattempo, chi – come noi – continua a vivere subendo non gli effetti più drammatici della guerra ma solo quelli indiretti – seppure per tanti particolarmente sensibili, come l’aumento dei prezzi delle materie prime e le ricadute sulla propria quotidianità, da subito, e sul futuro del lavoro e della crescita economica, nel medio termine – si trova incapace di comprendere le cause dell’aggressione russa, da un lato, e i possibili sviluppi del conflitto e le sue conseguenze, dall’altro. E questo nonostante, o forse proprio grazie a, l’abbondanza di pareri – più o meno esperti, più o meno improvvisati – che si sommano su giornali e televisioni, con l’unico risultato di creare l’ennesima contrapposizione di stampo ideologico tra chi propone certezze «senza se e senza ma» e chi, nel tentativo di definire alcuni punti, viene accodato all’elenco dei complici di Putin.
Una lista di buoni e cattivi, come se la Storia recente, anche solo guardando a quella che chi ha una certa età ha potuto seguire da lontano ma in prima persona, non ci avesse insegnato a diffidare dei certi di spirito e del loro sostegno tutt’altro che spirituale alle imprese guerresche. Un mese è bastato per fare emergere dalle cantine degli studi televisivi cartine da appendere con soldatini e carri armati al posto dei plastici dell’ingegneria progettata in tempi di pace. A dare spazio alla geopolitica e ai suoi presunti esperti, senza che qualcuno si preoccupasse di definire prima a che cosa dovrebbero servire la geopolitica e i suoi presunti esperti. A creare nuove occasioni di scontro nei talk show, ora sulla guerra, dopo mesi e mesi di strilli sulla pandemia – e sui contro, e sui pro, e sui «senza se senza ma» della scienza. O di qua o di là. O contro Putin o con Putin. Tutto il resto sono chiacchiere da pacifisti, che alla fine, più o meno consapevolmente, si ritrovano complici dell’aggressore. Senza se e senza ma.
Eppure la Storia dovrebbe averci insegnato a diffidare dei certi di spirito e del loro sostegno tutt’altro che spirituale alle imprese guerresche
Un mese di guerra, oggi. Che dovrebbe esserci bastato per riflettere almeno un poco su quanto le cose possano cambiare repentinamente. Su quanto quegli equilibri che ci eravamo convinti fossero sufficientemente stabili si possono rivelare in breve tempo illusori. Su quanto avessimo sopravvalutato la capacità dell’homo economicus di inglobare in sé decenni di homo sovieticus, certi che in poco tempo si potesse trasferire nell’epoca neoliberale un modello di vita che aveva lasciato tutto in capo allo Stato.
Scrive Masha Gessen: «Il 2 gennaio del 1992 il governò revocò i controlli sui prezzi dei beni di consumo, fatta eccezione per pane, latte e alcolici. Nel giro di un paio di settimane, le merci cominciarono ad affacciarsi sugli scaffali dei negozi. In capo a un mese, i prezzi erano saliti del 352% e i soldi che i russi avevano considerato risparmi erano stati spesi» [Il futuro è storia, trad. it. Sellerio, 2019].
Dove eravamo, noi, il 2 gennaio del 1992? Dov’erano i commentatori che si affastellano l’uno sull’altro in queste settimane di guerra? E, soprattutto, dov’erano e da che parte stavano guardando i leader – quelli che oggi stanno scoprendo quanto Putin sia feroce – mentre Anna Politkovskaja veniva uccisa nell’ascensore del suo palazzo a Mosca, il 7 ottobre del 2006, perché voleva raccontare gli orrori perpetuati dalla Russia di Putin in Cecenia? Dov’erano mentre si svolgeva la vicenda di Alexei Navalny? Sonnanbuli, o vigili e dunque doppiamente responsabili, mentre Putin modificava la Costituzione per poter restare senza limiti di tempo alla guida del Paese, allontanandolo ogni giorno di più da un seppur vago regime di stampo democratico?
In un mese soltanto abbiamo potuto accorgerci, se abbiamo voluto, di quante cose siano state ignorate nel corso degli anni. Riscopriamo ora l’urgenza di una comune idea politica da parte dell’Europa democratica, come se non ci fossero stati, a più riprese, i segnali della sua necessità. Riscopriamo ora la solidarietà europea – che rimette in gioco la Polonia come attore pienamente legittimato del gioco democratico, a dispetto delle scelte tutt’altro che solidali e democratiche del suo governo recente – di cui ci siamo a lungo dimenticati quando a scappare dalla guerra erano curdi, afghani, siriani, e di cui ancora oggi sembriamo riuscire senza troppi sforzi a dimenticarci.
Riscopriamo ora l’urgenza di una comune idea politica da parte dell’Europa democratica, come se non ci fossero stati, a più riprese, i segnali della sua necessità. Riscopriamo ora la solidarietà europea
Riscopriamo ora l’idea di una difesa comune europea, su cui ben poco si discute nel merito – e come si potrebbe, dovendo farlo in emergenza? – quanto tanto si sfrutta l’argomento per sostenere nuovi, forti investimenti nell’industria delle armi: che cosa avremmo detto, un mese fa, della scelta del Bundestag tedesco di portare al 2% del Pil la spesa in armamenti? O quella del nostro Parlamento, di cui quasi non si discute? Di nuovo un’illusione: quella di credere che la Germania possa svolgere la funzione di leader di un esercito europeo, con la Francia rimasta l’unico membro dei 27 con l’arma atomica e il Regno Unito fuori dall’Unione e in posizione ambigua su molte questioni cruciali.
Abbiamo poi trascurato l’allarme di chi avvertiva l’insostenibilità del nostro modello energetico, rifiutandoci di mettere in atto le promesse siglate nelle varie Conferenze per il Clima, in particolare a partire dalla Cop21 di Parigi del 2015. Tanto da ritrovarci legati a doppio filo alla dipendenza dal gas e dal petrolio russi con l’effetto, paradossale, di mettere ancora più in forse l’urgenza di un cambio di paradigma che possa renderci sempre meno dipendenti da qualsivoglia fonte di energia fossile; tanto da ritrovarci capaci, nell’emergenza, di rispolverare argomenti vecchi di un secolo per sostenere l’estrazione di idrocarburi a casa nostra, lasciando credere che ciò possa servire a calmierare i prezzi – che dipendono da livelli sovranazionali ‑ e a rifornire le nostre riserve energetiche – che resterebbero comunque limitate e assai dipendenti dall’estero.
Un mese è trascorso da quando il 24 febbraio, sorprendendo anche gli osservatori più attenti, la Russia di Putin ha iniziato la sua invasione della grande Ucraina. Non sappiamo se questo sarà stato il primo mese di guerra, ma molti indicatori lasciano temere che possa essere così. Nel frattempo, converrebbe cercare di capire, anche guardandosi indietro, come si è potuti arrivare a questo punto e che cosa converrà fare per ritrovarsi meno fragili quando tutto questo sarà finito. A ben poco potrà servire, a questo fine, giocare a Risiko negli studi televisivi.
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