Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
L’intensificarsi del conflitto armato in Ucraina dovuto all’aggressione da parte della Federazione Russa guidata da Vladimir Putin ha riportato i concetti di guerra, pace e resistenza al centro del dibattito pubblico. Ma quando si entra in quella che l’antropologo Roger Caillois chiamava l’“irresistibile vertigine della guerra” che attrae l’uomo verso il più profondo dei baratri, tutto si mescola e si confonde. La resistenza, rigorosamente armata, diventa sinonimo di pace e il pacifista, categoria indefinita e indefinibile, appare come un fautore della resa o addirittura come “filo-putiniano”, con le mani sporche del sangue degli ucraini per la sua complicità al tiranno. A quel punto non sembra rimanere altra via di uscita credibile all’impasse se non quella di inviare armi, sempre più potenti.
Pace e guerra sono termini polisemici e l’ambiguità semantica porta con sé una fondamentale confusione nel ragionamento, che è di grave ostacolo nel concepire soluzioni alternative alla guerra per risolvere il conflitto. Certamente quando c’è un conflitto si rompe un equilibrio. Il risultato oltre ad essere distruttivo può rivelarsi però anche trasformativo: si può, infatti, raggiungere un equilibrio più avanzato. Quando Eraclito scriveva che dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella e tutto si genera per via di contesa, aveva ben chiaro l’elemento generativo del conflitto. Viceversa, la guerra è la patologia del conflitto, la sua degenerazione violenta. Questo accade quando nessuno se ne fa carico, se ne prende cura o, peggio, quando lo si alimenta, ad esempio con l’invio di armi. La guerra non è ineluttabile, è piuttosto il risultato di precise scelte politiche e non può mai essere strumento per raggiungere la pace. Al contrario, è una modalità di intervento sul conflitto arcaica e inefficace, come decenni di ricerche sul tema hanno dimostrato. Questi studi ci hanno anche insegnato che le guerre raramente sono di breve durata e di bassa intensità e che con il tempo tendono a trasformarsi, infliggendo alle popolazioni civili sofferenze sempre maggiori, cosa che sta succedendo anche in Ucraina.
Passiamo ora ad analizzare i concetti di forza e violenza, anch'essi spesso sovrapposti nel dibattito pubblico. La forza non è necessariamente violenta e la violenza spesso non è indicazione di forza. La cosiddetta “Partita dell’Assedio” disputata nel 1530 in una Firenze assediata dall’esercito asburgico è un esempio calzante di dimostrazione di forza attraverso il gioco (e non la violenza). In quell’occasione il messaggio fu chiaro: «siamo più forti dei vostri cannoni» (si veda L. Artusi e R. Semplici, I l corteo della Repubblica Fiorentina. L’assedio e il calcio fiorentino, 1529-1530 , Firenze, 2011) Anche l’aggressività, spesso confusa con la violenza, in realtà va distinta da essa. Come ci insegnano gli psicologi, si può essere aggressivi senza essere al contempo violenti. Se non controllata, l’aggressività può certamente sfociare in violenza, ma, se gestita può trasformarsi in determinazione. La distruttività, insomma, è solo uno degli esiti dell’aggressività che, opportunamente incanalata, può essere vitale, creativa e funzionale. Può, ad esempio, svolgere un ruolo importante nell’affermazione del Sé. La violenza invece, contrariamente alla forza, è sempre negativa in quanto genera altra violenza che, con l’esacerbarsi del conflitto armato, tende a diventare indiscriminata.
Veniamo all’idea di resistenza. Essa non deve essere necessariamente armata per funzionare. Come ci ha ricordato la storica Anna Bravo, in Italia, durante la Seconda guerra mondiale, numerose donne furono protagoniste di una resistenza nonviolenta tenace e creativa che sfruttava a proprio vantaggio gli stereotipi della donna vista come anima indifesa, docile e fragile, relegata nello spazio del privato, «spostando nell’universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzione, capacità di recitare più ruoli, appello agli affetti, fragilità esibita, impudenza calcolata, spesso la tattica del piccolo dono - un pezzo di pane bianco, una sigaretta - offerto al nemico in segno di pace» (A. Bravo e A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Laterza, 2001).
Negli ultimi vent’anni, la nonviolenza è stata oggetto di una sistematica ricerca empirica da parte di numerosi studiosi, tra cui Orion Lewis, Erica Chenoweth e Maria Stephan. I loro studi dimostrano che la difesa civile non armata e nonviolenta è più efficace della risposta armata anche contro i despoti e i tiranni. È inoltre una difesa più sostenibile nel lungo periodo perché comporta meno sofferenze, contribuisce a ricostruire e a compattare la società (anche nel caso in cui fallisca come in Cecoslovacchia nel 1968) e, spesso, riesce anche a mettere in discussione l’aggressore stesso, aiutando le sue componenti della società civile più attente alla pace e ai diritti umani. Se è indubbiamente vero che la nonviolenza non sempre funziona (ma d’altronde che cosa funziona sempre?) è altrettanto vero che riesce a conseguire la maggior parte degli obiettivi prefissati più spesso di quanto non faccia la violenza. D’altronde è ormai evidente che l’interventismo militare è stato fallimentare ovunque, basti pensare all’Iraq, all’Afghanistan o alla Siria. La nonviolenza non solo è più efficace, e meno dolorosa, della risposta armata ma lascia anche aperte più possibilità di costruzione di una pace duratura.
Se la lotta armata inevitabilmente rafforza le componenti più violente e militarizzate che emergono dalla lacerazione del tessuto sociale, la lotta nonviolenta permette di coltivare l’utopia di una società più giusta e più inclusiva
Tendiamo inoltre a dimenticare che le guerre non finiscono al fermarsi dei combattimenti. Il tipo di società che fuoriesce da una guerra è condizionato in larga misura dai mezzi usati per la lotta: se, infatti, la lotta armata inevitabilmente rafforza le componenti più violente e militarizzate che emergono dalla lacerazione del tessuto sociale, la lotta nonviolenta permette, invece, di coltivare l’utopia di una nuova società, più giusta e più inclusiva, capace di sollecitare la partecipazione di tutte e tutti alle decisioni che li riguardano. Un’utopia che è da intendersi come un qualcosa che non è ancora ma al quale stiamo tendendo. Il mezzo per realizzare questa utopia è la nonviolenza, che può essere vista come un ponte immaginario tra il passato definito dalla guerra, che non dovrebbe esserci più ma che c’è ancora, e il futuro, la nuova società che non c’è ancora ma a cui tendiamo. Ma perché allora viene “naturale” rispondere alla guerra con nuove armi, gettando cioè benzina sul fuoco, anziché inviando i “pompieri”?
Si può obiettare che, di fronte all’orrore della guerra, è difficile pensare con una logica di pace. Ed è così, soprattutto se si è “analfabeti del conflitto”. Papa Francesco definisce il ricorrere a schemi di guerra una sorta di “cainismo esistenziale”, che è legato al voler primeggiare ad ogni costo in un mondo ancora ostaggio della “volontà di potenza”. Armare gli aggrediti sembra essere, perciò, l’unica risposta possibile e la via della pace una irrealizzabile utopia. Che fare però concretamente quando la guerra è ormai scoppiata e sta infliggendo morti, distruzioni ed enormi sofferenze alla popolazione civile? Che fare quando le parti non vogliono intraprendere un percorso negoziale? Certamente non è facile rispondere a queste domande, ma difficilmente la risposta può essere quella di continuare ad armare i combattenti.
Che fare però concretamente quando la guerra è ormai scoppiata e sta infliggendo morti, distruzioni ed enormi sofferenze alla popolazione civile? Che fare quando le parti non vogliono intraprendere un percorso negoziale?Potremmo cominciare con il rompere gli schemi di azione/reazione, con il riformulare l’aggressione fuori da una logica bellica che necessita di un vincitore e di uno sconfitto, con il lavorare per riportare lo scontro a dimensioni più umane e con il sostenere attivamente quelle componenti della società civile delle parti in conflitto, e non solo, che si oppongono alla guerra. Esistono in Ucraina, dove, soprattutto all’inizio, ci sono stati numerosi tentativi di azioni di resistenza civile nonviolenta e di obiezione all’uso delle armi, iniziative che hanno colto di sorpresa i militari russi, mettendoli in difficoltà. Ricordiamo come la ferma, nonviolenta, resistenza danese all’occupazione nazista fra 1940 e il 1945 abbia messo in difficoltà l’occupante, in qualche modo cambiando il suo atteggiamento: lo sterminio di un intero popolo non era più visto come una cosa ovvia. «Su questa storia», che salvò, unico Paese in Europa, il 98% degli ebrei residenti, Hannah Arendt, in un capitolo del suo La banalità del male dedicato alla resistenza danese, scrive: «si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università […], per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». E il dissenso esiste anche in Russia, anche se la guerra, che cambia le società dei Paesi coinvolti in maniera negativa dando spazio e forza alle componenti più estremiste e violente, tende a zittirlo e a rafforzare invece quelle identità basate su sangue e terra che troppo spesso sono all’origine della violenza.
Insomma, non combattere non equivale ad arrendersi o a rimanere inermi, significa non usare violenza (che non è la stessa cosa della forza). I grandi maestri della nonviolenza ci hanno insegnato che la nonviolenza non è semplice rifiuto o mera astensione dalla violenza, né resistenza passiva. Al contrario, è qualcosa di positivo, un fare ma «in un certo modo, ed è radicata in una teoria della prassi e in un’etica della responsabilità». La sua forza, proprio, per il suo trattare l’altro come un essere umano, sta nella potenzialità di riuscire a spostare l’equilibrio morale e, con esso, l’equilibrio di potere. I nonviolenti, dunque, non sono “anime belle” convinte di risolvere le guerre mettendo fiori nelle canne dei fucili, ma donne e uomini che, riflettendo a fondo sulle possibili conseguenze delle loro azioni, si adoperano al fine di resistere alla violenza con mezzi pacifici, spesso rischiando moltissimo.
La nonviolenza implica il non condannare le azioni di Putin? O il negare l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia? Certamente no. Significa usare la forza rifiutando la violenza. Significa provare a costruire la pace con la pace e non con la guerra, consapevoli del fatto che una escalation ora può portare alla distruzione dell’umanità (non dimentichiamoci che siamo nell’era atomica). Nel dibattito pubblico, i pacifisti e i sostenitori della nonviolenza sono spesso tacciati di essere ingenui, pericolosi o addirittura codardi. In riferimento a quanto sta accadendo in Ucraina, l’urgenza di resistere all’invasione è sacrosanta e la tentazione di farlo rispondendo con le armi è comprensibile. Eppure il bagaglio di studi e di esperienze di nonviolenza attiva accumulato negli ultimi decenni dovrebbe bastare a convincerci che la nonviolenza può essere considerata una (assai più) valida e più creativa, alternativa alla resistenza armata.
La nonviolenza non può più essere vista come la scelta del codardo ma, al contrario, come l’unica risposta razionale, lungimirante e possibile per una società veramente pacifica. Certo, le numerosissime pratiche di pace, portate avanti ogni giorno e necessarie anche a creare una cultura di pace, rimangono ancora ai margini, oscurate dal fracasso della chiamata alle armi. Sta a ognuno di noi dare loro una voce.
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