Esiste una «questione demografica» nel nostro Paese? Una «questione», ovvero una situazione di fatto, di natura strutturale, che rappresenta un peso, un ostacolo, un impedimento al buon funzionamento della società? Una situazione che vorremmo cambiare, ma non sappiamo come fare, o non troviamo le risorse per farlo? Una questione della portata della «questione meridionale», quel divario che un secolo e mezzo di sviluppo e di governo unitario non hanno scalfito? Una questione come quella della fragilità idro-geologica del nostro territorio, e delle scarse difese messe in campo per contrastarla?

La risposta, chiara e netta, è: sì, la «questione demografica» esiste, ma il Paese – cioè coloro che hanno responsabilità di leadership nella cultura, nella politica, nell’economia, nelle istituzioni e nella società in genere e che, in definitiva, indirizzano l’opinione pubblica – sembra non accorgersene o preoccuparsene. Si ritiene che la questione, come governata da una misteriosa «mano invisibile», si risolverà da sola; oppure, che i meccanismi causali alla radice della questione demografica siano troppo complessi per tentare di cambiarli; oppure che essa, in definitiva, non generi costi sociali eccessivi e possa addirittura generare benefici. Non parlo poi di altre posizioni estreme, guidate da ideologie radicali o da analfabetismo storico, che ritengo sterile controbattere in queste pagine.

Al cuore della questione demografica dell’Italia – come di molti altri Paesi avanzati – sta l’incapacità della società di assicurare per via biologica, cioè mediante le nascite, il proprio rinnovo o ricambio. Le generazioni dei nuovi nati non sostituiscono, o non rimpiazzano (numericamente), quelle dei loro genitori che, a loro volta, non rimpiazzano quelle dei propri genitori, nonni dei nuovi nati. E c’è un’alta probabilità che anche la generazione dei pochi nati attuali possa non essere rimpiazzata, in futuro, dai propri figli.

Al picco della ripresa del dopoguerra, negli anni Sessanta, le nascite superarono, in alcuni anni, il milione, ma nel mezzo secolo successivo il declino numerico è stato continuo e rapido. Infatti, le nascite sono scese sotto il mezzo milione nel 2015 e se le tendenze dei primi mesi si confermassero nel resto dell’anno, esse sarebbero 450 mila nel 2018, nonostante il rilevante apporto dei nati da genitori stranieri. Bisogna risalire al XVI secolo, quando l’Italia aveva un quarto della popolazione attuale, per trovare un analogo numero di nascite. Da trent’anni il numero medio di figli per donna galleggia tra 1,2 e 1,4, tra il 30% e il 40% in meno di 2, quel numero (più una frazione che trascuro per brevità) che assicura il rimpiazzo numerico tra generazioni dei padri e generazione dei figli, quel 2 che è poi una media tra gli esiti riproduttivi delle donne (e degli uomini) che non hanno figli o ne hanno uno solo, quelli di una maggioranza che ne ha due e quelli di una minoranza che ne ha tre o più. La diminuzione delle nascite avvenuta negli scorsi decenni sta traducendosi nella graduale diminuzione delle donne (e dei loro partner) in età riproduttiva: nel 2000, tra i 20 e i 45 anni, c’erano 10,5 milioni di donne, oggi ce ne sono 7,6 milioni, e ce ne saranno appena 6,2 milioni nel 2040, qualora si arrestasse l’immigrazione.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 5/18, pp. 719-734, è acquistabile qui]

 

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