[…] Certo, è giusto muovere dal reddito. Mentre nel mondo le disuguaglianze di reddito si riducevano, per l’emergere tumultuoso dalla povertà di centinaia di milioni di esseri umani in Asia, mentre peggiorava ancora la condizione dei più poveri della terra, in Italia, come in tutto l’Occidente, dagli anni Ottanta la disuguaglianza di reddito cessava la discesa iniziata sessanta anni prima. E tornava anzi a crescere. Ma anche solo sul piano delle disuguaglianze economiche c’è molto altro, e ben prima della crisi del 2008. L’aumento della povertà.
Il fortissimo aumento della disuguaglianza di ricchezza, con i 5 mila adulti più ricchi d’Italia che passano dal 2 al 7% della ricchezza nazionale. L’irrigidimento della mobilità sociale. L’arresto della riduzione delle disuguaglianze fra regioni e la sua risalita, segnata da forti migrazioni interne ed esterne. E dietro tutto questo, la divaricazione fra buoni lavori – sempre meno – e cattivi lavori – in forte crescita. Lavori segnati da instabilità, vulnerabilità, una protezione e un’autonomia scarse o nulle. Lavori precari. Lavori presentati come un dono anziché un diritto. Con forme tali di sfruttamento da configurare talvolta una vera e propria schiavitù. Tutte forme di subalternità che tornano ad aggravare la condizione femminile.
Negli stessi anni si andavano aggravando anche i divari nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali, fra aree interne e aree urbane, fra centri e periferie e fra città. È un fenomeno che tocca tutti gli ambiti della vita umana: dall’istruzione alla cura della salute (un paradosso, visto che l’Italia rappresenta in media un’eccellenza internazionale); dalla mobilità alle comunicazioni; dall’abitare all’intero welfare. E poi c’è la disuguaglianza di riconoscimento: il riconoscimento, da parte delle classi dirigenti e del pubblico dibattito, della tua dignità, delle tue abilità, delle tue capacità di contribuire alle comunità a cui appartieni. L’assenza di riconoscimento ha progressivamente toccato molteplici fasce sociali della nostra società: abitanti delle aree rurali, insegnanti, operai, commercianti minori. Le classi dirigenti si sono occupate, a tratti, degli interessi di breve termine di queste fasce sociali, non più del loro ruolo culturale e politico: un atteggiamento fonte di mortificazione.
Ma perché è avvenuto tutto questo? Per convincere e muovere all’azione non bastano i fatti. Serve uno schema concettuale con cui interpretarli e narrarli – lo sa bene la destra. Serve una diagnosi, per capire come cambiare rotta. Come costruire un’altra storia. A guidarci alla risposta, che, di nuovo, abbraccia l’intero Occidente, è Anthony Atkinson. “Le disuguaglianze sono una scelta”, scrive secco. Sono il frutto della svolta a 180 gradi che cultura politica e politiche, di ogni parte, compiono a cavallo fra anni Settanta e Ottanta. Della subalternità culturale diffusa, anche della sinistra, alla forma mentis neoliberale. Certo che la globalizzazione e la tecnologia digitale hanno scosso il sistema. L’una ha ampliato in misura straordinaria l’offerta di lavoro. L’altra ha avviato una nuova stagione di sostituzione di capitale (materiale e immateriale) a lavoro e una trasformazione non ancora definibile delle relazioni umane. Ma anziché tentare di indirizzare questi processi, l’azione pubblica e collettiva si ritraggono.
Il cumulo delle scelte compiute contro gli interessi di ceti deboli e subalterni fa impressione se è scorso d’un fiato.
Prima di tutto, viene il sistematico indebolimento del potere del lavoro organizzato. Proprio quando i fenomeni appena richiamati avrebbero richiesto di spronare e aiutare i sindacati a investire nelle competenze necessarie per rappresentare il nuovo lavoro precario, per costruire forme nuove di internazionalismo (almeno in Europa), e più tardi per negoziare automazione e algoritmi, si scatena la gara al loro indebolimento. L’alibi della società liquida viene utilizzato per annunciare che il conflitto capitale-lavoro è roba del Novecento. In Italia, anche i partiti che confluiranno nel Partito democratico e poi il Partito democratico ne sono responsabili. Né meno danni fa nel nostro paese la tarda strada neo-corporativa, quella che coinvolge il sindacato nel governo del paese. L’attacco mette il sindacato sulla difensiva e su una linea conservatrice, che ne frena innovazione e rinnovamento.
E poi c’è l’inversione di marcia di tutte le politiche. L’Italia segue in affanno e con le sue peculiarità il nuovo credo.
Cambia nel giro di pochi anni il taglio delle politiche macroeconomiche che avevano segnato il dopoguerra. Vengono accantonati gli obiettivi della piena occupazione e di contrasto del ciclo economico. Sono progressivamente indebolite le politiche di regolazione dei mercati e di tutela della concorrenza, prendendo in contropiede il nostro paese che a queste politiche stava arrivando con gran ritardo. A livello internazionale, la liberalizzazione del commercio è accompagnata da due alterazioni dei rapporti di potere gravidi di conseguenze: primo, nel 1994 (accordo TRIPs), viene esasperata la protezione della proprietà intellettuale rispetto al principio del libero accesso alla conoscenza; e poi vengono completamente liberalizzati i movimenti di capitale, spostando potere da chi controlla lo Stato a chi controlla i capitali in una misura tale da essere insostenibile per la democrazia. Nel frattempo, lo Stato rinunzia progressivamente a disegnare e attuare missioni strategiche. Rinunzia al governo delle piattaforme digitali. Ignora a lungo il tema della sovranità privata sui dati collettivi e personali. Affida sempre più il governo del territorio alle decisioni delle imprese private, con un rovesciamento del potere di iniziativa. Privatizza massicciamente le imprese pubbliche.
L’effetto di queste scelte sul cambiamento tecnologico e sulle sue ricadute è possente e dà luogo a un paradosso. La tecnologia dell’informazione ha infatti in sé il potenziale per ampliare l’accesso alla conoscenza, per facilitare relazioni e soluzioni cooperative a cavallo di classi sociali e luoghi, per produrre buoni posti di lavoro, per migliorare le condizioni di vita nelle aree marginalizzate. Insomma ha il potenziale per accrescere la giustizia sociale. E invece sta accadendo il contrario. La tecnologia dell’informazione apre una biforcazione, e noi stiamo prendendo la strada sbagliata.
L’indebolimento dei sindacati e la svolta nelle politiche impediscono di indirizzare il cambiamento tecnologico e producono uno straordinario processo di concentrazione della conoscenza, del potere e della ricchezza. All’uso incontrollato dei nostri dati, collettivi e personali, si accompagna quello dei dispositivi digitali e segnatamente degli algoritmi di apprendimento automatico. Si tratta di un mezzo capace di accrescere la giustizia sociale in tutti i campi della vita umana. Ma, in assenza di un suo governo collettivo o pubblico, la ripetibilità e scalabilità delle correlazioni che ne sono l’essenza, l’apparente oggettività delle decisioni che suggerisce, la sua natura di scatola nera si prestano all’uso opposto. È quanto avviene nelle selezioni o nel controllo discriminatori sul lavoro, nella fissazione di prezzi monopolistici sul mercato, nel ridisegno perverso dei prodotti assicurativi, nella disumanizzazione dei rapporti di cura, nella selezione oscura dei messaggi politici o di pubblicità rivolti a tutti noi.
E non basta. Negli stessi anni, proprio mentre sul piano formale cresce, in Italia e in tutto l’Occidente, il grado di decentramento della governance pubblica, con un nuovo ruolo di Regioni e Comuni, le politiche di settore per tutti i servizi fondamentali e le riforme istituzionali sono segnate da un’intenzionale “cecità ai luoghi”: one size fits all. Accantonando i migliori insegnamenti del pensiero liberale, si assume di potere riassumere opzioni e obiettivi per scuole, mobilità, salute in parametri e dispositivi tecnici uguali per tutti i contesti, rinunziando a utilizzare la conoscenza dei cittadini, la discrezionalità degli amministratori e, specie in Italia, gli esiti dei processi di apprendimento sul campo. L’azione pubblica viene segmentata in silos settoriali. Il processo decisionale si irrigidisce. Viene anche da qui la penalizzazione dei contesti “anormali”, prima di tutto di quelli delle aree rurali e interne, dove oggi è massima la rabbia. Per compensare le disuguaglianze e gli effetti sociali di questa e delle altre politiche si compie il passo finale, un passo che mortifica e marginalizza ulteriormente i territori e che trasforma molte classi dirigenti locali in rentier: l’elargizione di sussidi pubblici al di fuori di ogni strategia, a favore di pseudo-formatori, a imprese irrecuperabili, a infrastrutture che non verranno mai completate o resteranno inutilizzate.
A sostenere e spronare tutto questo, è un profondo cambiamento del “senso comune”. Lo cattura il significato nuovo di parole e concetti base dell’agire collettivo. Bastino alcuni esempi: ciò che è pubblico, è peggiore di ciò che è privato; il merito, è provato dal patrimonio accumulato; obiettivo unico dell’impresa, è massimizzare il valore corrente degli azionisti; povertà, è una colpa o una forma di furbizia sociale; libertà, è lasciare un ospedale, una scuola, un quartiere, una città quando non funziona. Si pensi solo a quanto quest’ultimo frutto dell’ideologia neoliberale sia lontano dal principio costituzionale, per cui libertà è la possibilità di impegnarsi affinché siano rimossi gli ostacoli al funzionamento di quelle comuni ricchezze. Voce, non solo exit, direbbe Albert Hirschman.
Per sfruttare meglio questa diagnosi è utile avanzare un’ipotesi sulle ragioni di questa sistemica inversione di marcia, politica e culturale. Essa matura quando il modello “socialdemocratico” (nella definizione amplia di Tony Judt) è al culmine. Pesa l’eccessivo affidamento sui meccanismi re-distributivi. Pesa la contemporanea disattenzione alla formazione della ricchezza. Ma soprattutto, il modello non riesce ad evolvere di fronte agli effetti del proprio successo: le nuove aspirazioni liberate proprio dalla soddisfazione dei bisogni essenziali. Persona, diversità, donna, genere, partecipazione, ecosistema: sono le istanze del tumultuoso e variegato movimento che chiamiamo Sessantotto che restano senza risposta.
I partiti di massa dell’Occidente non si adeguano nella lettura della società, nei valori, nell’organizzazione interna. La loro crisi, tuttora in atto, verrà imputata alla modifica del contesto. Di nuovo, tecnologia e globalizzazione sono i candidati preferiti. Secondo la tesi prevalente, essi avrebbero concorso a produrre la frammentazione sociale e la liquidità delle identità e dei valori che impediscono la funzione di “rappresentanza” dei partiti. Ma non pensate, invece, che la sequenza causale sia opposta? Che, come sempre nella storia, la “rappresentazione” di una società sia opera dei rappresentanti, non un dato oggettivo? Se una persona in difficoltà o in discesa sociale viene convinta dal “senso comune” che la propria condizione non dipende da processi generali, ma interamente dalla propria responsabilità individuale, non pensate che questa persona rinunzierà a cercare alleanze o soluzioni collettive e concorrerà così alla frammentazione sociale? E poi, persino questa è una mezza verità. Infatti, i famosi soggetti “non rappresentabili”, dispersi socialmente e territorialmente, esprimono una domanda di aggregazione, che usa luoghi nuovi, come scoprono continuamente le organizzazioni di cittadinanza attiva e come ha scoperto il sindacato quando si è impegnato a cercarli.
[Questo testo riprende parte della relazione introduttiva di Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze Diversità), tenuta il 15 novembre 2019 a Bologna, a “Tutta un’altra storia. Gli anni 20 del 2000”, una tre giorni di riflessione del Partito democratico. La relazione, dedicata a Giuseppe Campos Venuti, trae larghissima parte delle riflessioni dalle analisi svolte collegialmente dall’intero Forum Disuguaglianze e Diversità, in particolare nel Rapporto “15 Proposte per la Giustizia Sociale”, disponibile sul web e in corso di pubblicazione per Il Mulino. Il testo completo della relazione è disponibile sul sito del Forum a questo indirizzo.]
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