Gli economisti non sono dottori, ricordava la scorsa settimana "The Economist". Pur se possono fare la diagnosi (sperabilmente corretta) di una malattia e indicare le cure, non possono tuttavia attendersi che queste saranno seguite dal malato. Nel caso di un’economia occorre infatti il consenso politico, e questo può essere difficile da ottenere quando le cure incidono, anche solo nel breve periodo e senza adeguate e convincenti compensazioni, su uno status ritenuto, a torto o ragione, un diritto acquisito. Sullo sfondo della generalizzata condanna delle pratiche nella finanza, un’esemplificazione di questi temi è il dibattito, tuttora in corso, sull’allocazione delle responsabilità di economisti-diagnostici rispetto ad autorità pubbliche – politici e autorità di vigilanza: i primi perché con i loro modelli teorici eccessivamente semplificati non avrebbero previsto la crisi, i secondi per aver promosso misure in linea astratta favorevoli a fasce disagiate della popolazione, ma creando di fatto incentivi perversi al debito privato sia tra i debitori sia tra i creditori, e trascurato i segnali di pericolo forniti tempestivamente da alcuni autorevoli economisti e dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri).
Lo “strano” governo tecnico di Mario Monti è un interessante esperimento sul se e come tecnici con riconosciute competenze economiche siano in grado non tanto di individuare le ricette, quanto di fornire una narrazione convincente per ottenere un consenso dell’opinione pubblica, mediata dai partiti, su misure di primo acchito “impopolari”. In questa chiave sembra si possa leggere la massiccia opera di persuasione cui si stanno dedicando i rappresentanti del governo, a partire innanzitutto da Monti. Rispetto solo a poche settimane fa, come l’opinione pubblica ha immediatamente colto, l’innovazione in questi interventi, in particolare quelli televisivi, è data dallo sforzo e dalla capacità di adoperare argomentazioni logicamente concatenate, basate su una conoscenza di prima mano dei dati. Tra le argomentazioni a sostegno delle liberalizzazioni, misure del tutto condivisibili, sorprende però che il presidente Monti abbia menzionato un possibile aumento del Pil dell’11 per cento, secondo le stime di uno studio di Banca d’Italia. Anche trascurando il possibile fraintendimento nella comunicazione, di cui si ha traccia in diversi giornali (vedi Stefano Lepri su "La Stampa" di domenica), tra un aumento a regime del Pil (e dopo quanti anni?), e un tasso di crescita annuale (manifestamente improbabile data la cifra), si vuole attirare qui l’attenzione su due aspetti relativi alla percezione dell’opinione pubblica sul rapporto tra decisori pubblici e tecnici economisti.
Il primo aspetto è che la reputazione del governo dei tecnici, cui attingere per essere convincenti, si fonda su modalità argomentative coerenti con la deontologia della professione. Una modalità è la sobrietà, declinata nel senso di non forzare teorie e dati a sostenere tesi che possono trovare motivazioni sotto altri profili. Il presidente Monti trae l’11 per cento da uno studio di Forni, Gerali e Pisani, economisti del Servizio Studi della Banca d’Italia, che può essere considerato adatto a trarne implicazioni per particolari misure di politica economica purché si sia consci delle ipotesi su cui si basa. In questo caso, il modello è una rappresentazione semplificata e concisa dell’economia, con le eroiche ipotesi circa l’agente economico rappresentativo tipiche dei modelli dinamici di equilibrio economico stocastico Dsge), al centro delle critiche circa l’apparato concettuale degli economisti per comprendere i meccanismi della crisi finanziaria. L’eroismo delle ipotesi è tale da minare l’efficacia di una comunicazione credibile all’opinione pubblica, e in particolare ai soggetti più direttamente colpiti dalle misure di liberalizzazione. In essenza, lo studio considera alcuni parametri riassuntivi di caratteristiche strutturali dell’economia italiana nel periodo 1999-2006 a raffronto con quelli medi per il resto dell’eurozona e simula cosa succederebbe se si annullasse il divario nel grado di ricarico (mark up) sui costi per il settore dei servizi tra Italia e resto d’Europa. I servizi nello studio includono banche, distribuzione commerciale, trasporti e comunicazioni, turismo e ristorazione, costruzioni e sono interpretati come un fattore di costo per la produzione di beni finali di consumo e d’investimento e non sono soggetti alla concorrenza estera. Non sorprendentemente, data l’ipotesi iniziale di un markup più alto di circa un quarto in Italia, si avrebbero benefici, quantificati in un Pil più alto, a regime (nelle simulazioni, già dopo cinque anni) dell’11 per cento. Incidentalmente, nello stesso studio e con metodologia analoga si stima un ulteriore aumento del 9 per cento se si riformasse il mercato del lavoro.
Il secondo aspetto è un possibile effetto perverso nel ricostituire un rapporto di fiducia tra opinione pubblica ed economisti, accademici e responsabili di istituzioni pubbliche. Ciò può verificarsi se si cita a supporto delle misure sulle liberalizzazioni, che si giustificano per una serie ampia e convincente di ragioni, prima fra tutte l’apertura di opportunità di lavoro ai giovani, uno studio attribuito alla Banca d’Italia, quando invece si tratta di una ricerca di taglio accademico di singoli economisti che non impegnano la responsabilità dell’Istituto di appartenenza, metodologicamente ineccepibile all’interno di un filone di ricerca sulla cui efficacia ai fini di politica economica si sono manifestati sempre più dubbi nella professione degli economisti. Anche nelle condizioni di un governo come quello presieduto da Monti, composto per riconoscimento unanime da tecnici competenti, questi problemi comunicativi potrebbero riproporre nell’opinione pubblica il dubbio circa l’"utilità sociale" degli economisti, quando si dovesse confrontare la crescita effettiva dell’economia con quella stimata sulla base di particolari modelli su cui si è attirata autorevolmente l’attenzione. L’efficacia della missione di persuasione circa l’opportunità di misure impopolari, messa in atto da questo governo, rischierebbe in tal modo di risultare compromessa.
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