Le ricadute sul mondo del lavoro prodotte dalla rottura della stretta relazione tra impresa e lavoro subordinato e dalla frammentazione e moltiplicazione dei modi di organizzare l’impresa e il lavoro vengono lette e interpretate dal governo Monti attraverso la lente tradizionale del lavoro subordinato a tempo indeterminato. Viene definito persino “contratto dominante”, il che riflette la perdurante sudditanza verso il lavoro subordinato, cioè verso il lavoro prestato alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Una sudditanza, figlia del XX secolo, che non riflette l’odierna realtà del lavoro, caratterizzata invece da un progressivo disinteresse dell’imprenditore all’esercizio di una direzione capillare sul lavoro e dall’emersione di schiere di lavoratori knowledge intensive. Dal capo II (tipologie contrattuali), III (disciplina in materia di flessibilità in uscita) e IV (ammortizzatori sociali) della riforma emerge un mercato del lavoro composto da due sole categorie di lavoratori: i lavoratori subordinati a tempo indeterminato e i lavoratori “in sala d’aspetto” (a progetto, partite iva, apprendisti, subordinati a tempo determinato), ossia in attesa di diventare lavoratori subordinati a tempo indeterminato.
Che questa lettura del mercato del lavoro sia incompleta lo dimostra l’acceso dibattito sui collaboratori titolari di partita Iva (termine utilizzato per riferirsi ai piccoli imprenditori e ai prestatori d’opera manuale o intellettuale non iscritti ad albi professionali), ora svantaggiati sul piano competitivo rispetto agli imprenditori medio-grandi o ai professionisti iscritti ad albo. L’articolo 9 del Ddl affida la selezione della “non genuinità” delle cosiddette collaborazioni con partita Iva a tre indici fattuali che, invero, contraddistinguono la fisiologia di gran parte delle collaborazioni del nostro Paese: a) durata superiore ai sei mesi; b) possibilità di usufruire di una postazione fissa presso il committente; c) monocommittenza o quasi, misurata attraverso il requisito quantitativo della provenienza del 75% dei corrispettivi percepiti dal lavoratore dal medesimo committente. In presenza di questi tre elementi di fatto, sempre che nel contratto non sia stato individuato uno specifico progetto, al collaboratore si schiude l’accesso all’universo del lavoro subordinato ma, nel contempo, gli si accolla un grosso svantaggio competitivo rispetto ai professionisti iscritti e ai medi-grandi imprenditori, ai quali i committenti inevitabilmente preferiranno rivolgersi per evitare rischi e incertezze.
È senz’altro vero – se ne deve dare atto al governo – che quasi tutte le collaborazioni a progetto e un certo numero di collaborazioni con partita Iva sono utilizzate dalle imprese come sostituti funzionali del lavoro subordinato più convenienti in termini di costi. La riforma risulta così coerente con una delle sue premesse di fondo: contrastare “l’uso improprio degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali” [corsivo nostro]. Con la precisazione (che andrebbe chiarita una volta per tutte) che l’idea che il lavoro cosiddetto a progetto sia un tipo contrattuale “più flessibile” del lavoro subordinato è figlia della retorica della flessibilità. Sotto il profilo organizzativo, il lavoro a progetto è assai più rigido del lavoro subordinato, in quanto non consente al committente lo ius variandi in costanza di rapporto. Invece, sotto il profilo dei costi, specialmente contributivi, il lavoro a progetto fa risparmiare alle imprese migliaia di euro all’anno. Il fenomeno riguarda vaste fasce della popolazione: dagli addetti al call center ai consulenti che operano nell’economia dei servizi. Di qui, è condivisibile la scelta legislativa di innalzare l’aliquota contributiva per i lavoratori a progetto: scelta che, per un verso, consente di evitare che l’unica reale ragione alla base dell’opzione dell’impresa per il contratto a progetto sia il risparmio dei contributi; per altro verso, fa i conti col drammatico e imminente problema della totale inadeguatezza delle prestazioni previdenziali pensionistiche.
Nondimeno, l’impianto complessivo della riforma è il frutto di un’incompleta rappresentanza degli interessi in gioco, restando ancorato all’idea tradizionale che per accedere a qualche forma di protezione, nel rapporto e nel mercato, bisogna lavorare alle dipendenze e sotto la direzionedi qualcuno. Una reductio ad unum della complessità che, per un verso, non tiene conto della realtà, fatta di giovani professionisti, lavoratori autonomi e micro imprenditori che non vogliono il lavoro subordinato, ma sono disperatamente in cerca di tutele; per altro verso, si pone in netto contrasto col pensiero di autori del calibro di D’Antona e Supiot, che negli ultimi vent’anni hanno sottolineato l’esigenza d’imboccare la via, certo più difficile, della rimodulazione e ridistribuzione ascensionale delle tutele lungo il continuum lavoro autonomo-lavoro subordinato.
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