Non si può che iniziare con un’avvertenza al lettore: questo articolo viene scritto nella serata di domenica 7 agosto, dopo la rottura di Calenda. È un caveat doveroso, visto il vorticoso succedersi di eventi che sta caratterizzando la sofferta formazione di una coalizione elettorale imperniata sul Pd. E non è detto che, nelle prossime ore, non ci siano altre novità. I tempi, tuttavia, stringono e anche la pessima figura che le “non destre” stanno facendo dovrebbe trovare un limite. Il quadro dell’offerta elettorale che verrà proposto agli elettori sembra oramai definito.
Se, da una parte, la destra ha messo sotto il tappeto tutte le scorie delle recenti divisioni e si è facilmente ricompattata per sfruttare al meglio le opportunità che le offre il sistema elettorale, non così è accaduto dall’altra parte, tra quelle che per brevità possiamo definire le “non-destre”. Anzi, si è assistito qui a una faticosissima (e, a quanto pare, fallimentare) trattativa che sembrava avesse portato portato a una soluzione, fatta di accordi “separati” e “bilaterali” stretti dal Pd con tutti i vari contraenti. Ma anche questo finale è stato ribaltato.
Credo sia opportuno distogliere lo sguardo dalla sconfortante cronaca quotidiana e cercare di capire se tutto ciò ha un senso. Da più parti era stata lanciato, nei giorni scorsi, un appello per costruire un patto tra forze politiche molto diverse tra loro, ma accomunate da un semplice obiettivo, ampiamente giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica: evitare che questa assurda legge elettorale produca pesanti effetti distorsivi sulla rappresentanza parlamentare. Molto semplicemente, date le caratteristiche del sistema elettorale, questo significava concordare candidature comuni delle “non destre” nei collegi uninominali, al fine di neutralizzare una possibile, grave sproporzione tra la percentuale dei voti e la percentuale dei seggi, con tutti i pericoli che ne possono derivare (modifiche costituzionali, elezione dei membri della Corte costituzionale ecc.). Il Rosatellum contiene intrinsecamente questo forte potenziale distorsivo: nel 2018, non ci furono rilevanti scostamenti tra voti e seggi, ma ciò accadde solo per ragioni contingenti, ossia per la distribuzione territoriale dei consensi, con la presenza di tre schieramenti medio-grandi, diversamente radicati nel Paese.
Di fronte a tutto ciò, il Pd ha compiuto delle scelte che sembrano per molti aspetti self-defeating, controproducenti e auto-punitive. Per capire la logica degli eventi, ci può aiutare un concetto-chiave della letteratura teorica sui sistemi elettorali: quello di “coordinamento strategico”. Con questo termine si intende l’insieme delle scelte che i singoli attori politici, ma anche i singoli elettori, compiono in risposta ai vincoli e alle opportunità che vengono offerte o permesse da determinate regole del voto. E un ruolo essenziale, nel definire tali scelte, è quello svolto dalle aspettative, ossia da una qualche ragionevole previsione sugli effetti politici che le decisioni di voto possono produrre. Nel nostro caso, il Rosatellum, com’è noto, presenta pesanti vincoli, primo fra tutti il voto unico (ossia, l’impossibilità di un voto disgiunto, che molti elettori oramai conoscono nella sua applicazione alle elezioni comunali e regionali). E il ruolo delle attese sui probabili esiti del voto è decisivo nel determinare l’effettivo funzionamento anche di questo sistema elettorale. Sono molti frequenti i casi di fallimento del coordinamento tra gli attori e tra gli elettori. Un caso di scuola sono le elezioni presidenziali francesi del 2002, poi vinte da Jacques Chirac. In quell’occasione, la previsione generale era che il leader socialista Lionel Jospin potesse giungere al ballottaggio: data questa aspettativa, tutte le varie forze della gauche pensarono bene di misurarsi separatamente al primo turno: risultato, Jospin (con il 16,2%) fu superato da Jean-Marie Le Pen (16,9%), mentre altre sei formazioni di sinistra insieme raccolsero oltre il 25% dei voti.
Il caso delle elezioni politiche italiane del 2022 rischia di rivelarsi un altro caso di fallimento del coordinamento strategico tra le diverse forze di uno stesso “campo” politico
Il caso delle elezioni politiche italiane del 2022 rischia di rivelarsi un altro caso di fallimento del coordinamento strategico tra le diverse forze di uno stesso “campo” politico: anzi possiamo qui richiamare anche un modello interpretativo ben presente in molte teorie sulla logica dei comportamenti individuali e collettivi, ovvero il fatto che spesso la ricerca di soluzioni “razionali” dal punto di vista del singole attore produce esiti collettivi disastrosi per tutti.
Si possono trovare motivazioni politiche nel mancato accordo elettorale tra tutte le forze “non di destra”; ma alla radice, vi è un’aspettativa diffusa: tutti pensano che il trio Meloni-Salvini-Berlusconi vincerà le elezioni. E quindi, dall’altra parte, i vari attori hanno adottato quella che per loro è una scelta second best: “massimizzare” il proprio risultato, in termini di seggi parlamentari. Da qui la ricerca della visibilità e della distinzione, il marcare ciascuno distanze e confini, e poi il pesante gioco della trattativa sulle candidature nei collegi, con il notevole “sacrificio” che il Pd ha dovuto sostenere (o meglio, sembrava dovesse sostenere, non sappiamo come finirà) per “accontentare” gli altri contraenti.
In tutta questa vicenda appare inspiegabile il carattere tranchant dei modi con cui Letta e il Pd, dopo la crisi di governo, hanno escluso ogni trattativa con il M5S, con quella forza, cioè, a cui i sondaggi (nonostante la martellante campagna di derisione cui è sottoposta da gran parte del sistema mediatico) continuano ad attribuire un rilevante 10%, e con cui il Pd ha condiviso un lungo periodo di governo, con buoni risultati. Tutto ciò è stato spazzato via. Certo, Conte era stato avvertito dei pericoli; ma aver messo sullo stesso piano “i tre irresponsabili” che hanno provocato la crisi non si è rivelata una mossa saggia politicamente: ha significato tagliarsi i ponti alle spalle e soprattutto ha finito per spostare gli accenti da un possibile accordo quanto più “largo” possibile, per evitare una distorsione nell’assegnazione dei seggi, ad un “patto” politico-programmatico che non poteva reggere, come dimostrano i fatti, neanche se ci si fosse limitati ad una coalizione che escludesse il M5S.
In tutta questa vicenda appare inspiegabile il carattere tranchant dei modi con cui Letta e il Pd, dopo la crisi di governo, hanno escluso ogni trattativa con il M5S
Come detto sopra, molto può essere spiegato dalla logica di “massimizzazione” a breve che ha ispirato le mosse dei vari soggetti. Ma un discorso specifico va fatto per il Pd, cioè per il partito cui sarebbe spettato il compito di una visione più lungimirante. E invece abbiamo assistito a una serie di scelte oscillanti. In un primo tempo, l’obiettivo del Pd sembrava essere quello di costruire un accordo, più o meno ampio (dai diversi “centri” di Calenda e Di Maio fino ai Verdi e a Sinistra Italiana), che riducesse i danni, e che facesse confluire sullo stesso Pd quanti più voti possibile (“o noi o la Meloni”). Successivamente, vi è però stato uno slittamento, fino all’accettazione dei diktat di Calenda e la firma di un documento che si profilava come un “accordo politico”, sbilanciando l’asse della potenziale “coalizione”. Ed è sorprendente che Letta abbia accettato questo terreno “politico”, quando invece, solo pochi giorni prima, aveva ricordato come il Rosatellum preveda solo “alleanze elettorali”: nessun programma politico comune delle liste che si “apparentano”, nessuna indicazione di un leader di coalizione. Successivamente, ed inevitabilmente, la sinistra di questo “campo stretto” non ha potuto certo accettare un profilo modellato sulla cosiddetta “agenda Draghi”. E dunque, si è tornati al profilo “tecnico” di un accordo meramente elettorale. Il resto è cronaca delle ultime ore, con Calenda che rompe l’alleanza appena firmata, rivendicando un vero ed esclusivo patto politico di governo.
In tal modo, non c’è dubbio, Letta e il Pd si sono incartati, come si dice. Se volessimo comunque individuare una qualche “razionalità” sottesa a queste scelte del Pd, e non attribuirla solo ad errori di analisi e di valutazione che in politica sono sempre in agguato, l’unica possibile spiegazione è che il Pd pensava, e spera tuttora, di riattivare una dinamica simile a quella delle elezioni del 2008. Ma questo calcolo corre il rischio di essere molto illusorio.
Nel 2008, il Pd di Veltroni, in nome della “vocazione maggioritaria”, scelse di “andare da solo” (a parte Di Pietro). Senza dubbio una scelta che pagò, dal punto di vista elettorale: il PD ottenne un cospicuo 33,2%, prosciugando tutto il resto della sinistra. Ma quel risultato fu possibile proprio perché il PD riuscì efficacemente ad accreditare nell’opinione pubblica l’idea che l’esito di quelle elezioni non fosse scontato, e che il Pd potesse davvero vincere: questa aspettativa fece scattare ampiamente la logica del “voto utile”.
È molto dubbio che questo meccanismo possa oggi ripetersi, in condizioni molto mutate. Ci sono varie ragioni. La prima, semplicemente, è che ben pochi, tra gli elettori, pensano che la “non-destra” possa vincere le elezioni: se lo pensano, e lo lasciano trasparire dai loro comportamenti, gli stessi attori politici, perché mai gli elettori dovrebbero farsi un’idea diversa? Quindi, viene a mancare un essenziale ingrediente del “voto utile”. Ma la seconda ragione è decisiva: è molto diverso il sistema elettorale. Il Porcellum, con cui si votò nel 2008, prevedeva un conteggio nazionale dei voti, con il premio alla coalizione vincente: un possibile “voto utile” poteva dunque interessare l’intero territorio nazionale.
Quest’anno, questo tipo di voto potrà funzionare, eventualmente, solo nei collegi cosiddetti marginali, dove ci può essere incertezza sul possibile vincitore: previsione, peraltro, molto ardua oggi, con i mega-collegi da 400 e 800 mila abitanti, che non sono mai stati sperimentati prima e dei cui possibili risultati gli elettori, ma anche gli stessi partiti, non hanno alcuna “memoria” storica. E poi anche l’eventuale “voto utile” sarà comunque limitato perché dovrà fare i conti con il pesante vincolo del voto unico imposto dal Rosatellum: quanti saranno gli elettori disposti a sacrificare la propria preferenza per un partito votando per un altro partito, perché è solo in questo modo che il loro voto si può trasferire al candidato; o magari votando solo il candidato (ma sapendo che poi però questi voti vengono redistribuiti comunque alle liste di sostegno, cioè a partiti che lui non avrebbe voluto votare)?
Il quadro, mentre scriviamo questa nota, non è ancora ben definito, ma la situazione molto difficile che si profila è innanzi tutto il frutto di alcuni gravi errori del Pd: la rinuncia pregiudiziale a costruire un accordo elettorale ampio (magari anche senza riuscirci perché, ad esempio, il M5S avrebbe potuto comunque giudicare più conveniente una gara solitaria), ha lanciato un messaggio, neanche troppo implicito, di resa, come una sorta di ritirata preventiva, sperando di salvare qualche truppa: una strategia puramente difensiva e debole.
Oggi, la coalizione imperniata sul Pd si esporrà comunque all’accusa di non avere una proposta di governo. Questa accusa ci sarebbe stata anche in caso di un accordo più ampio che avrebbe dovuto comprendere, per essere efficace, anche il M5S; ma sarebbe stata perfettamente giustificabile anche nel dibattito pubblico e durante la campagna elettorale (mentre ora lo è molto meno la proposta di una mini-coalizione, che essa stessa non ha un programma comune).
Alla prevedibile critica di essere solo un’“accozzaglia” si sarebbe potuto rispondere del tutto credibilmente: “siamo forze diverse tra loro, è verissimo, ma abbiamo deciso comunque di presentare candidati comuni nei collegi uninominali. perché non vogliamo che questa legge elettorale, che è pessima, che non dà nessun reale potere di scelta agli elettori, e che doveva essere cambiata, possa dare alla destra un numero di seggi non corrispondente al reale consenso che essa ha nel Paese. A destra hanno litigato furiosamente fino ad ora, ma si sono messi d’accordo per spartirsi i collegi, hanno scritto un programma che già ora viene interpretato in modo diverso. Perché mai tutte le forze che si oppongono alla destra avrebbero dovuto farle un gentile omaggio, regalandole la vittoria su un piatto d’argento?”. Sarebbe stato un discorso che poteva essere compreso dagli elettori. A questo punto è inutile piangere sul latte versato: si può sperare solo di limitare i danni.
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