Lo stato della socialdemocrazia è diventato ormai da anni uno di quei temi che vengono immediatamente associati a un forte pessimismo per il futuro. Si parla di socialdemocrazia quasi esclusivamente per lamentarne il declino, specie nel contesto di dibattiti sul populismo di destra, la forza accusata di avere “rubato” alle forze di centrosinistra il loro tradizionale voto operaio. Uno dei termini più gettonati del dibattito politico nel decennio scorso è stato del resto “pasokizzazione”, per suggerire che molti partiti socialisti erano condannati allo stesso destino toccato al Movimento socialista panellenico di Papandreou; o quello per certi aspetti ancora più triste del Parti Socialiste francese costretto a causa del crollo di consensi e finanziamenti a chiudere la propria sede storica di Rue de Solferino.
Si tratta solo degli esempi più eclatanti di una tendenza generale. Secondo uno studio firmato da Giacomo Benedetto, Simone Hix e Nicola Mastrorocco, se i partiti socialdemocratici europei un tempo avevano in media più del 40% dei voti adesso sono ridotti attorno al 20%. Il caso di relativo successo del Psoe spagnolo non dovrebbe illudere rispetto a tale fosco quadro generale. Il timore è che le prossime elezioni europee segneranno un'ulteriore batosta, specie vista la situazione disperata dell’Spd in Germania. Eppure, è proprio in questa notte della socialdemocrazia che è possibile tornare a parlare di socialdemocrazia non solo come un passato nobile ma corroso dal tempo, ma anche come un progetto politico che può avere una rilevanza per il nostro prossimo futuro.
La socialdemocrazia – intesa storicamente come la corrente “riformista” (nel senso di non-rivoluzionaria) del movimento socialista e come una logica politica che punta a conciliare democrazia ed eguaglianza, usando le organizzazioni dei lavoratori e l’intervento dello Stato, come mezzo per “addomesticare” il capitalismo – sta tornando ad acquisire rilevanza in questa fase di pesante crisi della globalizzazione e crescente scontro geopolitico. Si riaffacciano sulla scena politica occidentale tipiche tematiche socialdemocratiche: domande redistributive (come le richieste di nuovi sussidi viste in diversi Paesi negli ultimi anni), scioperi per l’aumento dei salari (come quelli del settore automobilistico Usa), politiche volte a creare nuovi servizi pubblici gratuiti (come i treni di breve e media distanza a costo zero in Spagna) e forme di politica industriale che vogliono determinare politicamente quello che il Paese deve produrre, in particolare ai fini della transizione ecologica.
Si tratta di segnali di una inversione di rotta rispetto al non-interventismo dello Stato e alla dottrina del mercato auto-regolante della fase neoliberista. Il capitalismo post-globale, con protezionismo commerciale e politica industriale attiva, con tanto di sussidi alla produzione oltre alla diminuzione nei differenziali tra i salari a livello internazionale (oggi i cinesi non sono più così poveri rispetto agli italiani), riduce almeno in parte la possibilità per le imprese di minacciare i lavoratori con tattiche “escapiste” (per citare Zygmunt Bauman) come la delocalizzazione degli impianti. In questo contesto si aprono nuovi punti di pressione per i sindacati, leader e forze politiche che si fanno portatori degli interessi dei lavoratori; soprattutto in Paesi pienamente sovrani e che non hanno mai del tutto abbandonato la politica industriale come gli Usa.
È alla luce di questo cambiamento di fase che si può intendere come, nonostante la situazione elettoralmente disastrosa delle forze che si professano socialdemocratiche, si torni oggi a parlare di socialdemocrazia. Un esempio di questi dibattiti è la recente conferenza “Future of Socialdemocracy” che si è tenuta a fine settembre all’Istituto Remarque della New York University, fondato dallo storico britannico Tony Judt, famoso per le sue analisi dell’Europa nel dopoguerra e la costruzione dello Stato sociale. L’evento ha ospitato economisti progressisti come Isabella Weber, Branko Milanovic e Clara Mattei, leader politici di area socialista e socialdemocratica (tra cui la segretaria dell’internazionale socialista Benedicta Lasi), storici e politologi d’area, per porsi due domande cruciali rispetto alla costruzione di una strategia socialista. Quali sono le determinanti storiche, economiche e politiche dell’attuale declino della socialdemocrazia? E quale strategia potrebbe portare a un ritorno della socialdemocrazia nel tempo presente?
È ormai riconosciuto che la conversione a posizioni centriste e politiche economiche di stampo neoliberista abbia portato a perdere contatto con l’elettorato delle classi popolari
Il vicolo cieco della Terza Via. Rispetto alle cause del declino della socialdemocrazia, seppur con sfumature diverse, la maggior parte degli interventi nella conferenza attribuiva il declino della socialdemocrazia al fallimento della strategia della Terza Via. È ormai ampiamente riconosciuto che la conversione a posizioni centriste e politiche economiche di stampo neoliberista abbia portato le formazioni socialdemocratiche a perdere contatto con l’elettorato delle classi popolari che erano la sua tradizionale fascia sociale di riferimento.
Come sostengono Thomas Piketty e altri economisti e sociologi che hanno studiato il declino delle forze socialdemocratiche, i lavoratori si sono sentiti traditi dai politici socialdemocratici. Durante i cosiddetti “trenta gloriosi” – i decenni di forte crescita vissuti dopo la Seconda guerra mondiale – la socialdemocrazia era vista dalla maggioranza dell’elettorato operaio come la forza che proteggeva i lavoratori e garantiva il progresso di tutta la società, conciliando capitalismo e benessere diffuso. Adesso invece è percepita semplicemente come una forza votata a difendere gli interessi del mondo delle imprese e di una nuova classe media (in parte proveniente dalla classe operaia) cresciuta all’ombra dello Stato sociale, delle organizzazioni sindacali e delle opportunità di mobilità sociale che l’egemonia socialdemocratica del dopoguerra aveva permesso.
Questo cambiamento non può essere letto solo come un “tradimento” morale della missione tradizionale della socialdemocrazia. Seguendo questo ragionamento si potrebbe fare risalire tale tradimento al famoso congresso di Bad Godesberg del 1959 dell’Spd o, ancora più indietro, alle lotte tra comunisti e socialdemocratici viste in Germania e altri Paesi tra fine della Prima guerra mondiale e l'ascesa dei fascismi o le accuse del 1918 di Lenin a Kautsky di essere un rinnegato. Bisogna riconoscere che una parte della leadership dei partiti socialdemocratici era vittima di una sindrome di Stoccolma ideologica: era genuinamente convinta che “non c’è alternativa” (per citare la Thatcher) o “quell’opzione non esiste più” (per citare il leader del Labour James Callaghan nel famoso discorso del 1976 in cui redarguiva rispetto ai rischi inflazionistici della spesa pubblica).
La vittoria ideologica del neoliberismo maturata già a partire dagli anni Settanta (come simbolizzato dall’assegnazione del Nobel per l’economia a Hayek nel 1974 e Friedman nel 1976) portò i partiti del centrosinistra a una resa ideologica e ad adottare politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro, di privatizzazione delle imprese pubbliche e di tagli al Welfare state, come una necessaria resa dei conti con la realtà di una globalizzazione ritenuta inscalfibile. In un momento di forte liberismo commerciale si riteneva che gli Stati nazione avessero le mani legate e le grandi compagnie e la finanza internazionale fossero pressoché onnipotenti; questo invitava ad adottare una strategia non solo prudente, ma apertamente arrendevole di fronte alle richieste di “modernizzazione” provenienti dalla classe capitalista. La sconfitta del tentativo socialista di Mitterand in Francia a inizio anni Ottanta di fronte alla pressione dei mercati finanziari fu un evento chiave nel suggellare questa impotenza della politica. Lo sviluppo della strategia della Terza Via con Bill Clinton negli Usa e Tony Blair nel Regno Unito, con il suo impegno per ridurre il potere dello Stato e delle organizzazioni dei lavoratori fu il punto d’approdo di questa traiettoria storica.
La socialdemocrazia sembrava essersi definitivamente arresa di fronte al suo tradizionale avversario ideologico: il liberismo. Il centrosinistra non doveva più riformare il capitalismo, per “migliorare le condizioni di vita della maggioranza della popolazione” (per usare una frase spesso ripetuta dai socialdemocratici). Piuttosto doveva riformare la società (ad esempio riducendo anche le prestazioni dello Stato sociale che i socialdemocratici stessi avevano istituito) al fine di renderla più funzionale al funzionamento del sistema capitalista, costi quel che costi. Le riforme sociali promosse graduali ma comunque chiaramente progressiste promosse dalla Spd o dei Fabiani britannici erano così sostituite da riforme (o più propriamente contro-riforme) regressive, dato che diminuivano i diritti e peggioravano la condizione di vita della popolazione, nel nome della “competitività”.
Tale cambiamento dei fini dell’azione politica, dalla protezione dei lavoratori e la correzione del capitalismo alla “modernizzazione” a favore del mercato è stato accompagnato da una trasformazione profonda nel mondo in cui i partiti di centrosinistra vedevano la realtà sociale. Come affermato dalla sociologa Stephanie Mudge (anche lei presente alla conferenza di New York) se in passato gli “esperti di partito”, ovvero gli intellettuali che sviluppavano l’analisi e la strategia della socialdemocrazia, erano attivisti politici organici al movimento dei lavoratori o in una seconda fase più tecnocratica economisti di fede keynesiane, oggi quel personale di esperti è reclutato presso “economisti orientati alla finanza transnazionale”, ovvero analisti per cui il benessere dei mercati finanziari e degli investitori internazionali aveva la priorità rispetto a qualsiasi altra considerazione.
La socialdemocrazia degli albori aveva mantenuto un contenuto morale, una visione utopistica della “buona società” seppure moderata da un forte pragmatismo nel breve termine: il cammino di riforme graduali e incrementali era una strada lenta ma al contempo più sicura verso una forma democratica di socialismo. Con la Terza Via invece il centrosinistra perse ogni riferimento valoriale di lungo periodo, adattandosi al ruolo di gestore di una ineluttabile trasformazione nella direzione di una società del mercato nell’era della globalizzazione – promettendo tutt’al più di rendere questa trasformazione il meno dolorosa possibile per i lavoratori.
Ascoltare chi ha paura. Se il declino della socialdemocrazia è dovuto alla mancanza di una visione alternativa del mondo, è evidente che non sono sufficienti soluzioni di dettaglio o piccoli aggiustamenti programmatici. Piuttosto è necessario un ripensamento a livello di impianto generale: quale deve essere oggi il compito storico della socialdemocrazia, i suoi valori, i suoi obiettivi di lungo periodo, la sua base politica e morale?
L’incapacità di creare quella “connessione sentimentale” con il popolo di cui parlava Gramsci è un chiaro elemento di debolezza del centrosinistra rispetto ai populisti di destra
Avendo perso la propria identità e la sua visione di “buona società”, come conseguenza della sua conversione al liberismo, la socialdemocrazia è oggi percepita come una forza tecnocratica (ovvero capace solo di offrire soluzioni amministrative piuttosto che pienamente politiche), guidata da un personale politico e incapace di empatia verso la popolazione che dovrebbe rappresentare. Questa incapacità di leggere e interpretare le emozioni dell’elettorato e di creare quella “connessione sentimentale” con il popolo di cui parlava Gramsci è un chiaro elemento di debolezza del centrosinistra rispetto ai populisti di destra, noti per mobilitare le ansie dell’elettorato, in particolare quello di classe lavoratrice che era la base tradizionale del centrosinistra.
Nel suo intervento alla conferenza di New York, Patrick Weil, che era il membro più giovane nel comitato centrale del Partito socialista francese ai tempi di Mitterand, ha ripreso una famosa frase di Tony Judt in una lezione del 2009 secondo cui la socialdemocrazia del futuro sarebbe stata “una socialdemocrazia della paura”. Era necessario non solo promettere miglioramenti, ma fare i conti con la paura delle persone e soprattutto la paura di perdere quello che un tempo veniva dato come scontato a partire da tanti servizi dello Stato sociale.
Secondo Weil, per riconquistare il proprio elettorato la socialdemocrazia doveva tornare a fare i conti con i timori diffusi della popolazione. Tale proposta è stata accolta tiepidamente da altri conferenzieri che sostenevano che ci si dovesse appellare di più a passioni positive, alle aspirazioni di benessere, come quelle a cui a suo tempo si appellò con successo la socialdemocrazia della Terza Via. Tuttavia, in questa fase storica di declino e peggioramento delle condizioni di vita, è evidente che la paura è destinata ad avere un peso politico maggiore del desiderio e che il centrosinistra dovrebbe fare attenzione a non considerare con arroganza le paure dell’elettorato come irrazionali. Piuttosto bisogna interrogarsi su perché tali paure esistano, fare i conti con le loro radici a partire dalla condizione di declino sociale ed economico vissuto in tanti Paesi occidentali a partire dall’Italia e offrire risposte socialdemocratiche a tali paure.
Fino alla svolta della Terza Via, la socialdemocrazia era capace di rispondere alla paura. La socialdemocrazia era sinonimo di protezione e sicurezza sociale, di politiche volte a governare, regolare e ove necessario reprimere il capitalismo per garantire lo sviluppo della società nel suo complesso.
Se si vuole sconfiggere la politica della paura della destra e la sua politica di “law and order” tutta orientata verso gli immigrati e altri Paesi usati come capri espiatori, bisogna recuperare questo patrimonio politico, questa promessa di difesa contro i mali della società e di garanzia di un miglioramento progressivo delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Oggi pragmatismo e idealismo tornano a essere allineati. Per affrontare le sfide del presente non bisogna più rinnegare i valori fondativi della socialdemocrazia come fecero i fautori della Terza Via, presentandolo come un necessario adeguamento ai “nuovi tempi”, ma riscoprire tali valori a partire da quello della protezione sociale oggi richiesta da fasce sempre più ampie dell’elettorato.
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