Giorni amari questi per l’Italia. La questione dell’ambiente viene a porsi con la sua cruda evidenza davanti a un popolo impaurito da un cambiamento economico dagli esiti imprevedibili e al quale lo Stato appare completamente incapace di dare risposte chiare, coerenti e organizzate su qualunque tema d’interesse sociale, come su qualunque iniziativa che abbia come finalità “ciò che giova all’uomo”. Monta una rabbia popolare. Gli assalti alle sedi del Pd da parte dei “NoTav”. Il dolore cupo e muto della Sardegna di fronte ai morti e agli immensi danni prodotti dall’offesa recata alla natura con la dissennata cementificazione dell’isola, di fronte alla violenza di inondazioni e frane che devastano l’Italia ormai a ogni stagione di piogge, in autunno come in primavera.
Epifania originaria dell’aprirsi anche in Italia d’una grave questione ambientale è l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966. Una tragedia che procurò danni gravissimi all’intero e gloriosissimo patrimonio artistico della città e che, se certamente fu l’esito delle forti piogge d’inizio novembre, ebbe però come concausa decisiva l’iniziale formarsi nel Paese d’un capillare dissesto idrogeologico. Quello causato dalla corsa dei contadini a lavorare nelle industrie, quindi abbandonando la secolare e gratuita e faticosissima manutenzione del territorio condotta coltivandone ogni minima e più scoscesa e remota particola.
Due le iniziative istituzionali prese per affrontare quel problema, allora in fase aurorale, perciò ancora redimibile con successo e con una spesa sostenibile.
Nel 1973, quarant’anni fa, viene presentata a Urbino la Prima relazione sulla situazione ambientale in Italia. Un ancor oggi formidabile lavoro di ricerca promosso dall’Eni, alla cui realizzazione viene chiamato il meglio del pensiero scientifico italiano e internazionale. Prima relazione che però resta anche l’ultima, perché stroncata sul nascere dall’allora Pci che vede nell’Eni, non una delle grandi industrie strategiche del Paese, ma un’associazione a delinquere che, dopo aver inquinato, vuol guadagnare disinquinando. Un ragionamento da bambino documentato dall’«Unità» (1.7.1973), del cui nefasto esito per il Paese così racconta anni dopo Marcello Colitti, dirigente dell’Eni: «A Urbino bastarono i dieci minuti dell’intervento di Giovanni Berlinguer, membro del Comitato centrale del Pci, per segnare l’atto di morte del tentativo dell’Eni di conquistare un ruolo istituzionale nel settore dell’ecologia. Un grande lavoro e un’équipe di qualità risultarono sprecati. La relazione sui problemi dell’ecologia nel Paese non fu più rifatta. Da allora, al discorso ecologico italiano è mancato per molti anni un elemento fondamentale: un centro di rilevazione e di elaborazione che avesse i mezzi per operare e la capacità tecnica e imprenditoriale, oltre alla credibilità verso il pubblico».
Seconda iniziativa è il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria, elaborato in anni di lavoro dall’Istituto centrale del restauro allora diretto da Giovanni Urbani e reso noto nel 1976, 37 anni fa. Un lavoro di ricerca in cui per la prima volta si parla in Italia di rischio idrogeologico e sismico, conservazione preventiva, manutenzione, programmazione e così via. Risultato? La compatta opposizione al Piano umbro da parte di professori universitari, soprintendenti e politica, manifestamente inadeguati (allora e oggi) a capire la novità, la modernità e l’utilità pubblica di quel lavoro. Opposizione che fece subito chiudere il Piano umbro in un cassetto e che trovò voce nel frontale attacco al Piano condotto sull’«Unità» (22.9.1976) da un professore di Perugia, l’etruscologo Mario Torelli, che lo definì «lavoro di bassissimo livello culturale e largamente disinformato, un preciso attentato alle proposte avanzate dalle forze di sinistra per una più democratica gestione dei beni culturali». Mentre sette anni dopo, nel 1983, uno dei più importanti soprintendenti italiani, uomo da sempre di riferimento per le politiche culturali della sinistra, risponde toccandosi e facendo le corna a una sua funzionaria che gli chiede di presentare l’appena concluso lavoro di ricerca, realizzato sempre dall’Icr di Urbani, su La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico. Un altro lavoro di ricerca d’enorme importanza strategica per il Paese prontamente buttato nel cestino della carta straccia.
Non si stupiscano allora quelli del Pd se qualcuno ha cominciato ad assaltarne le sedi, e se quelle stesse sedi pochi le difendono. Sempre più difficile è infatti sedare una collera che viene da lontano. Dall’aver illuso per decenni il popolo degli ultimi «umili» con la vana promessa che avrebbero fondato loro (Pci-Pds-Pd) una nuova società giusta, meritocratica, colta, morale e civile, e perciò attenta ai grandi temi sociali quale, tra gli altri, quello dell’ambiente. Producendo invece, per fare solo alcuni esempi, Regioni che sono clone del Governo centrale, altrettanto corrotte, clientelari, burocratiche, incompetenti, inefficienti e arroganti; Università che aprono sedi a ogni pisciata di cane e formano il ceto dirigente che ci ha portati qui; intellettuali di riferimento (la gramsciana “egemonia culturale”) come Torelli o chi difende il patrimonio artistico dai terremoti facendo le corna, ovvero chi ha salvaguardato i centri storici museificandoli, così scacciandone attività commerciali e abitanti, cioè desertificandoli.
Ma soprattutto pensando, sempre Pci-Pds-Pd, che il compito della sinistra sia far lavorare la gente comunque e ovunque. Da qui le nuove costruzioni – un tempo condomini e villette, adesso torri, nuvole, crescent, verde verticale ecc. – come «volano dell’economia», cui è inevitabilmente seguita l’alleanza con la speculazione edilizia, così favorendo anche la sinistra la generale cementificazione del Paese; quella sotto gli occhi di tutti e che, da una parte cancella in modo sempre più capillare e disgraziato la stessa identità figurativa dell’Italia, dall’altra è causa principale di inondazioni e frane, cui seguono i morti e i disastri di cui tutti sappiamo.
Domanda. Che differenza c’è sul piano etico e morale tra la speculazione edilizia di destra e quella di sinistra? Ovviamente nessuna, se non che, forse la sinistra ruba meno della destra. Ma in questo desolante quadro di ritardo culturale, sciatteria istituzionale e afasia progettuale, rubare meno degli altri può essere un programma sociale e etico, cioè politico? Che tristezza. E che rabbia.
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