Pochi giorni fa gli avvocati di Facebook, Twitter e Google sono stati interrogati dal Senato degli Stati Uniti per spiegare come abbiano potuto non accorgersi della presenza sulle loro piattaforme di propaganda politica occulta. Quella, in particolare, che sembra essere stata finanziata da account russi durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2016 che, giusto un anno fa, ha portato alla vittoria di Donald Trump.
Un nuovo capitolo del cosiddetto «Russiagate» si è così aperto. Facebook, infatti, avrebbe ricavato una cifra superiore ai 100.000 dollari dalla vendita di spazi pubblicitari ad account fake legati a server russi. Il periodo interessato è quello che va dalla discesa in campo di Trump (maggio 2015) al maggio di quest’anno. Gli account coinvolti avrebbero pubblicato post che, pur non riferendosi in maniera esplicita al voto, trattavano, orientando l’opinione del lettore, contenuti oggetto della campagna elettorale: omofobia, xenofobia e politiche migratorie, diritto a possedere armi per difendersi da sé.
Stando a quanto pubblicato dal «New York Times», oltre 3.000 spazi pubblicitari sulle bacheche degli utenti di Facebook sarebbero stati acquistati da account fake legati alla Russia, raggiungendo 126 milioni di utenti del social di Mark Zuckerberg. A questi andrebbero aggiunti oltre 131.000 messaggi su Twitter e più di 1.000 video caricati su YouTube. Dietro questa vera e propria campagna si celerebbero organizzazioni riconducibili alla Internet Research Agency di San Pietroburgo.
Dietro questa vera e propria campagna si celerebbero organizzazioni riconducibili alla Internet Research Agency di San Pietroburgo
Sono sufficienti questi pochi dati per comprendere quale sia la posta in palio. Se nel corso di un evento fondamentale come la campagna presidenziale degli Stati Uniti è possibile che una potenza straniera riesca a influenzare l’elettorato americano, o almeno una parte di esso, quali possono essere le potenzialità di influenzare e manipolare l’opinione pubblica attraverso i social?
Il Congresso americano propone di estendere alle piattaforme dei social la legislazione che attualmente regola le aziende che gestiscono radio, televisione e comunicazioni via satellite. Facebook, Twitter e Google hanno dichiarato di voler aumentare ancora i propri investimenti in sicurezza, al fine di identificare spam e bots, e rendere più trasparente la pubblicità politica.
Certo, il potere di influenza e in alcuni casi di manipolazione dei social non si limita all’ambito politico, dove ha sicuramente conseguenze estremamente gravi per la democrazia, ma pervade ormai tutti gli ambiti della vita sociale. Gli algoritmi influiscono in misura sempre maggiore sulle decisioni degli utilizzatori di internet; suggeriscono prodotti, playlist e informazioni che si basano sulle informazioni acquisite in base ai nostri comportamenti e al nostro utilizzo della Rete.
Quali canzoni ascoltiamo? Quali film vogliamo vedere? Quale libro acquistiamo? Ma gli algoritmi non si limitano a influenzare le scelte dei consumatori in questi campi. Se, ad esempio, esprimiamo opinioni, politiche e non, di un certo tipo, dobbiamo aspettarci di vederci proposte sui nostri social, in particolare su Facebook (che decide che cosa dobbiamo o non dobbiamo vedere) opinioni e affermazioni che potrebbero indurci a rafforzare ulteriormente le nostre credenze in quella medesima direzione; provocando, con buona probabilità, una radicalizzazione delle nostre idee.
È solo un esempio dell’influenza crescente degli algoritmi nella nostra vita quotidiana. Un problema che sembra non interessare né tanto meno preoccupare più di tanto la massa di consumatori e di utilizzatori del web, è quello del destino e dell’utilizzo di quell’enorme quantità di dati personali di cui lasciamo traccia ogni volta che facciamo un acquisto, visitiamo un sito, consultiamo la recensione di un ristorante. Proprio per utilizzare questa enorme quantità di dati servono gli algoritmi: per districarsi in una massa enorme di dati in cui altrimenti ci perderemmo.
Dai siti di incontri, a quelli di trading online, ai motori di ricerca o a quelli di acquisto, dunque, gli algoritmi giocano un ruolo fondamentale nell’influenzare le nostre decisioni. L’ordine in cui arrivano i suggerimenti nelle nostre ricerche sul web influenza in modo determinante le decisioni che prenderemo. Ma che cosa sono gli algoritmi? Secondo Panos Parpas, docente di metodi quantitativi all’Imperial College di Londra, sono fondamentalmente un insieme di istruzioni, seppure straordinariamente complesso, per risolvere un problema. Banalizzando, è un po’ come avere una ricetta per preparare una torta. Gli algoritmi ci dicono quali sono gli ingredienti migliori da utilizzare, la temperatura ottimale del forno, il tempo di cottura.
Banalizzando, è un po’ come avere una ricetta per preparare una torta. Gli algoritmi ci dicono quali sono gli ingredienti migliori da utilizzare, la temperatura ottimale del forno, il tempo di cottura
Gli algoritmi non sono certo apparsi oggi, ma l’interesse attuale è connesso alla grande quantità di dati oggi generata e dal bisogno di processarli e interpretarli. Fanno parte delle nostre vite di persone connesse. Il problema naturalmente non sono gli algoritmi in quanto tali, che di per sé non sono altro che strumenti, ma il loro utilizzo, il controllo dei dati, la loro diffusione e i problemi connessi alla privacy e alla sicurezza. Un altro aspetto oggi cruciale è quello del loro utilizzo per fare previsioni e progetti che riguardano il futuro e quindi per prendere decisioni in ambito politico, economico, finanziario, di Welfare ecc. Secondo i maggiori studiosi delle nuove tecnologie uno dei rischi principali è quello di cogliere nessi causali quando un algoritmo rileva una correlazione tra un enorme numero di dati. Ma non sempre le correlazioni indicano nessi causali: Secondo Mayer Schonberger dell’Oxford Internet Institute «c’è il rischio di utilizzare previsioni sui comportamenti degli individui tratte da big data per giudicarli e punirli prima ancora che essi abbiano agito. Ciò nega ogni idea di equità, giustizia e di libertà di scelta […] Rischiamo di cadere vittima di una dittatura dei dati, dove feticizziamo l’informazione, i risultati delle nostre analisi, e finiamo per farne un uso improprio. Utilizzati in modo responsabile i big data costituiscono un utile strumento per prendere decisioni in modo razionale. Se maneggiati in modo pericoloso possono diventare uno strumento in mano a governanti corrotti o spregiudicati che possono utilizzarli a scopi repressivi, sia frustrando le aspettative dei consumatori e dei lavoratori, sia danneggiando gli interessi e le vite dei cittadini».
Non si tratta dunque di demonizzare gli algoritmi, il cui utilizzo se appropriato e corretto può rendere le nostre vite più semplici: il fatto che Amazon, basandosi sulle nostre ricerche e sui nostri acquisti, ci suggerisca un determinato libro non è di per sé deprecabile. Il problema sta piuttosto, da un lato, in un utilizzo appropriato e sicuro che non metta dati sensibili nelle mani di persone spregiudicate o scorrette; dall’altro, nella difficoltà di spiegare rischi e pericoli di un uso inappropriato di internet alla massa di utilizzatori del web, in gran parte inconsapevoli delle informazioni che involontariamente tutti noi lasciamo in Rete. Un tema su cui in futuro occorrerà investire a più livelli.
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