In questi giorni stanno arrivando a tutti i docenti universitari italiani le lettere che comunicano le rispettive appartenenze ai nuovi settori scientifico-disciplinari, secondo le previsioni del recente decreto ministeriale del 2 maggio 2024. Nuovi per modo di dire, perché, come ci si aspettava, si è trattato di una revisione prevalentemente cosmetica, che ha lasciato sostanzialmente inalterato l’assetto portante dell’organizzazione dei saperi universitari. Un assetto che vanta l’innegabile primato di una stoica resistenza nel corso degli anni nonostante sia unanimemente criticato (senza voler fare statistiche, non mi è mai capitato di rintracciare interventi nel dibattito scientifico, accademico ma anche giornalistico, in difesa di questo sistema).

È fin troppo evidente che l’incontenibile desiderio di conformismo e le tradizionali italiche barricate di difesa corporativa sono alla base di questa straordinaria asimmetria, che nessuno, tranne qualche organico e ambizioso progetto di riforma come quello abbozzato dal Cun nel 2018 grazie al contributo dell’indimenticata Carla Barbati, in realtà ha voluto superare.

Eppure, come non si stanca mai di ricordarci Mario Ceruti, oggi tutti i problemi con i quali dobbiamo confrontarci “sono multidimensionali, sistemici, transazionali, trasversali, mentre l’approccio consociativo prevalente è parcellizzante, dividente isolante”, un approccio chiaramente incentivato da una organizzazione della ricerca e da strutture accademiche verticali e a compartimenti stagni, riassunto dalla ormai nota espressione di una risalente ricerca dell’Ocse: “Mentre le società hanno i problemi, le Università hanno i dipartimenti”.

Sempre parafrasando Mario Ceruti, una “cultura della complessità” fa una grande fatica ad affermarsi e questo nonostante la narrazione dell’interdisciplinarità sia diventata una sorta di mantra disseminato ovunque: dai provvedimenti legislativi (ad esempio quelli sull’Università attuativi del Pnrr) a molti statuti di Ateneo. Il che non vuol dire che, sia nelle analisi teoriche (esiste una letteratura sterminata in materia) sia nelle applicazioni pratiche, non si spendano energie nel solco di sperimentazioni di dialogo e intersezione tra più saperi (e, anzi, non sarebbe male una organica mappatura di queste esperienze), ma la domanda concreta e banale è: oggi una giovane ricercatrice che aspiri a una carriera universitaria, già di per se non priva di ostacoli e incertezze, può permettersi una produzione scientifica “trasversale” senza che le vengano immediatamente tagliate le gambe perché osa uscire (o anche solo attestarsi sui confini) del proprio settore scientifico di riferimento?

Una giovane ricercatrice che aspiri a una carriera universitaria, già di per se non priva di ostacoli e incertezze, può permettersi una produzione scientifica “trasversale”?

Bisogna dire che alla nostra immaginaria ricercatrice qualche diverso segnale sta arrivando: il Cun, nelle sue proposte di modifica del sistema di valutazione e reclutamento dell’8 maggio, chiede l’introduzione di un “un meccanismo di riconoscibilità più diffusa e trasversale dei prodotti della ricerca” in base al fatto che “il carattere fortemente multidisciplinare e interdisciplinare assunto dalla ricerca richiede, infatti, il riconoscimento e la legittimazione reciproca di mondi scientifici diversi e l’accrescimento di credibili e frequenti possibilità di dialogo tra i due sistemi di classificazione attualmente in uso (bibliometrica/non bibliometrica)”. In sostanza, secondo la proposta, una volta definito come “scientifico”, un singolo prodotto potrebbe essere “valorizzato dai candidati di qualsiasi Gsd/Area ai fini della valutazione dell’impatto della produzione scientifica, almeno nel computo del numero complessivo delle pubblicazioni”. Sarebbe sicuramente un piccolo passo avanti, insieme alla possibilità, nei concorsi locali, di dare più spazio alla profilatura delle competenze richieste dalle singole università per insegnamenti ad alto contenuto interdisciplinare. Una strada, questa, per certi versi già intrapresa dal Cnr, che nel definire i nuovi ambiti disciplinari per ricercatori e tecnologi si è mosso nel solco dei macrosettori individuati dal panel dell’European Research Council.

Naturalmente si può discutere a lungo su quale sia l’architettura migliore, ma l’importante è che lo si faccia mettendo a terra una cassetta degli attrezzi (e, lo ribadisco, non si parte da zero perché il Cun nel 2018, seguendo le idee di Carla Barbati, già lo aveva fatto, a mio parere con grande equilibrio) per uscire dalla retorica di una interdisciplinarità che si ferma sulla soglia di generici proclami buoni per tutti gli usi e privi di qualsiasi sbocco.

La revisione dei settori disciplinari rappresenta il tipico ruscello che scendendo a valle è destinato a ingrossarsi sempre di più, perché riversa i suoi effetti sul ripensamento del sistema di valutazione della ricerca e delle procedure di reclutamento

È evidente, poi, e proprio i “segnali” prima richiamati lo testimoniano: la revisione dei settori disciplinari rappresenta il tipico ruscello che scendendo a valle è destinato a ingrossarsi sempre di più, perché riversa i suoi effetti sul ripensamento del sistema di valutazione della ricerca e delle procedure di reclutamento, e implica un grande sforzo per l’autonomia universitaria per riarticolare e ampliare un’offerta didattica ancora lontana da quella formazione di competenze trasversali, ormai da moltissime indagini e rilevazioni empiriche ritenuta la chiave di volta per accedere a un mercato del lavoro qualificato.

Un’occasione, visto il periodo nel quale ne parliamo, per cominciare a gettare le fondamenta del percorso per il titolo di laurea europeo, finalmente rilanciato, dopo qualche scetticismo, dalla recente Comunicazione comunitaria, che necessariamente si dovrà fondare, lo dice testualmente il Blueprint della Commissione, su una collaborazione interdisciplinare tra gli atenei. Un percorso profondamente innovativo e ambizioso che, in fin dei conti, potrebbe rientrare a pieno titolo nella categoria dei “cambiamenti radicali” rivendicata da Mario Draghi per il futuro dell’Europa.