Praticamente ogni anno, tra lo spegnersi dell’estate e l’inizio della nuova stagione televisiva, si riaccende, sempre uguale e sempre diversa, l’eterna polemica intorno ai talk show politici. A lungo la pietra dello scandalo è stato Michele Santoro, prima in Rai (Annozero), poi online e sulle locali (Raiperunanotte, la prima annata di Servizio pubblico), quindi su La7, in attesa del prossimo ritorno ancora su Raidue. Poi è toccato a Giovanni Floris, al suo passaggio a La7 per diMartedì, alla scelta di Massimo Giannini per ereditare Ballarò. E quest’anno è il turno della chiusura proprio di Ballarò, nella Raitre guidata da Daria Bignardi, e del lancio di una nuova testata, Politics, e di un nuovo volto, Gianluca Semprini, strappato a Sky (ovviamente, tra numerose polemiche).
Da luglio a settembre, pertanto, in uno stanco rituale, si susseguono anteprime e pre-giudizi, offese e difese, strascichi di vecchi rancori e curiosità sincera, punti di vista sempre un po’ parziali e orgogli di categoria (i politici, i giornalisti, la fantomatica società civile). Ogni autunno si tira in ballo con sempre più vigore una presunta «crisi del talk» ormai troppo duratura per poterci credere davvero, visto che le reti televisive generaliste continuano a lasciare ampio spazio a un genere di basso costo e discreta resa. Il rinnovamento del talk politico, in pratica, è un’impossibile quadratura del cerchio. Un «comma 22» dove non c’è (quasi) posizione accettabile, si scontenta sempre qualcuno degli osservatori tutt’altro che imparziali, non si può star fermi né muoversi, lasciare intatto ciò che c’è o provare a cambiare qualcosa.
Politics. Tutto è politica è la proposta di Raitre per il prime time del martedì, serata classica (e affollata) per il dibattito politico. Occupa lo spazio di Ballarò dopo l’affrettata chiusura della gestione-Giannini e vuole sancire, almeno nelle intenzioni, una cesura e una rinascita. È un bersaglio perfetto per polemiche e attenzioni, un banco di prova importante per le scelte della rete e della nuova dirigenza Rai, che in questo caso ha adottato una strategia di tipo offensivo, con la volontà di marcare uno spazio, con grandi annunci e grandi cambiamenti. I tratti distintivi e caratterizzanti del programma, o meglio del suo format «sulla carta», ne sono chiara testimonianza.
La scelta di un conduttore molto apprezzato nei confronti per elezioni e primarie tenuti su SkyTg24, ma tutto sommato sconosciuto al grande pubblico generalista; la decisione di contingentare la durata del programma e ridurla a un’ora e mezza, ignorando l’inevitabile abbassamento di share che ne consegue, per dare un freno al consueto debordare delle discussioni fino a notte fonda tipico di molti altri talk. Il tentativo dichiarato di adottare un approccio «laico» verso la politica, non troppo ossequioso verso il potere, americano per così dire nella funzione di cane da guardia che può mettere in difficoltà l’ospite, pieno di ritmo, di velocità, persino di disincanto. La cura formale, la regia (affidata a Duccio Forzano, per lungo tempo a Che tempo che fa e già artefice in fase di lancio del diMartedì di Floris), la grafica (nel logo, nella titolazione, nei sottopancia) di gusto contemporaneo. La serie di promo andata in onda in estate sintetizzava bene queste intenzioni, con politici di varia estrazione costretti a rispondere a domande precise e battenti, portati via di peso se si servivano solo di frasi fatte e luoghi comuni. Ma quando le ambizioni sono così grandi, il vero problema diventa metterle in pratica.
Dopo due puntate, infatti, il programma è ancora un cantiere. La cura formale c’è, la breve durata pure. Il conduttore ha qualità innegabili, riesce a essere piano e preciso, a fare affondi e a stare sempre sul filo di una lieve ironia, a tenere il ritmo e insieme la piacevolezza della conversazione, a portare lo spettatore con sé lungo il processo di articolazione del ragionamento e di costruzione della domanda, un passo alla volta. Ma è ancora in fase di rodaggio: la fretta lo porta a interrompere troppo presto alcuni discorsi, l’ansia di prestazione a sostituirsi subito alla persona comune a cui ha appena dato la parola, la routine del talk politico a dimostrarsi talvolta più sornione che ficcante, più complice che watchdog con l’ospite di turno. Soprattutto, però, Politics non pare avere ancora trovato una struttura precisa. La pulizia e la concisione che stanno nelle premesse non trovano infatti riscontro nello svolgersi denso e caotico delle puntate, nel mix di linguaggi e di frammenti già visti, in una scaletta che sembra quasi procedere per tentoni e tentativi. Per vedere l’effetto che fa. Soltanto nella prima puntata, tra i tanti blocchi, si sono affastellati un confronto tra due giornalisti (sul modello di Otto e mezzo, o delle mille discussioni seduti a un tavolo che hanno riempito i programmi di infotainment della scorsa stagione), i collegamenti in diretta con gli inviati (tipici del tg o delle piazze catodiche), i servizi di inchiesta (un po’ Report, un po’ Santoro, un po’ Ballarò, persino un po’ Le iene), il dibattito che segue all’inchiesta, il confronto tra due politici con tempi di risposta contingentati (occhieggiando ai dibattiti pre-elettorali di Sky, condotti proprio da Semprini, ma senza quell’urgenza) e un’intervista intimista a corredo di una storia filmata tutta giocata sui toni della commozione (e qui siamo dalle parti dell’emotainment pomeridiano). La seconda puntata ha aggiunto altri toni e altri contenuti: l’intervista singola al politico con approfondimenti e domande secche (ed è subito In mezz’ora), il plotone dei sindaci tra il pubblico con rapidi scambi di battute (dalla Raitre di Guglielmi all’infotainment di oggi), i servizi esplicativi o riassuntivi sull’attualità (ancora dalle parti di Report e Presa diretta), il servizio con intervista montata a effetto, le domande prese da Facebook, il confronto tra un politico e il pubblico parlante in studio, fatto di tipi umani attentamente scelti (con più di un richiamo alle serate di «Uno contro tutti» del Maurizio Costanzo Show), per finire ancora una volta sul confronto all’americana tra due politici con cronometro, campanella e persino l’appello finale.
Il susseguirsi vorticoso di formule e tonalità differenti dà sì ritmo, ma finisce spesso per lasciare tutto solo in superficie. I blocchi sono distinti, slegati tra loro. E se è difficile, o forse impossibile, fare davvero qualcosa di inedito, che non sappia di già visto, che non ricordi all’istante qualcos’altro, la sfida per un programma nuovo dovrebbe essere quella da un lato di selezionare tra il caos sia tematico sia formale e dall’altro di individuare un trait-d’union, un elemento di continuità, per così dire di «narrazione», che possa diventare tratto distintivo nella memoria degli spettatori e nelle loro scelte di visione al martedì sera.
Per ora il rischio è stato considerare il limite dei 90 minuti non come vera opportunità ma come vincolo cui sottostare per forza, in cui cercare di far stare il più contenuti, ospiti e trovate possibili, quasi a voler condensare in un solo programma l’intero palinsesto di una rete all news, toccando tutti i temi della settimana, cambiando costantemente modi di coinvolgere e interpellare il pubblico, saltando di palo in frasca senza direzione precisa. Se però il contenuto è centrifugo, costantemente mutevole, ricco di complessità, dev’essere il contenitore a sopperire offrendo un approdo chiaro e sicuro, altrimenti lo spettatore non trova appigli e preferisce rivolgersi (come del resto dimostrano i dati di ascolto) a formule e a volti consueti, alla solita liturgia del «lei non mi interrompa», delle mancate risposte e degli applausi delle claque.
Ridurre la troppa carne al fuoco, abbandonare la ricerca spasmodica di effetti speciali, realizzare almeno alcune delle sacrosante premesse, selezionare sia i temi sia le modalità: altrimenti Politics, nella lunga storia del talk politico, sarà soltanto una falsa partenza. E il dibattito su «crisi del talk» e relative polemiche potrà ripartire.
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