Questo articolo fa parte dello speciale Partito democratico
A metà degli anni Settanta era nata una categoria di intellettuali e di opinione pubblica attenta alla politica che venne definita gli “antipatizzanti socialisti”. Erano persone che avevano incrociato in vari momenti il Psi e che se ne erano allontanati con rimostranze e critiche varie, anche feroci, ma che rimanevano legati in qualche maniera a quel mondo. Il rapporto affettivo rimaneva sottotraccia, ma si era riconvertito per la disillusione in disistima e persino in astio venato da qualche punta di disprezzo. Un sentimento che toccò l’acme con l’ascesa al potere di Bettino Craxi, vituperato ben oltre i suoi limiti e difetti (pur gravi).
Lo stesso è accaduto per molto tempo nei confronti del Pd e oggi ha raggiunto un vertice mai toccato in precedenza. Tutto parte dal risultato del 25 settembre. Il Pd ha ottenuto un modesto 19%. Un risultato inferiore alle aspettative, non c’è dubbio. Ma un risultato superiore a quello del 2018, seppure di un’oncia. In effetti il Pd è il solo partito assieme a FdI a non aver perso voti (in percentuale) rispetto alle precedenti elezioni. Lega e M5S si sono dimezzati e FI ha lasciato sul terreno il 40% dei voti. Una Caporetto per tutti. Eppure è solo il Pd a essere sul banco degli accusati, con decine di articoli e commenti che denunciano i peggiori mali di questo partito.
Nella Lega si è assistito appena a uno stormir di fronde che non ha certo scosso il Capitano, ben saldo in sella visto che i “governatori” leghisti, nelle loro regioni, hanno subito un tracollo di consensi facendosi surclassare da FdI e quindi hanno poche armi per contestare Salvini, il quale li ha messi tutti in riga dando subito la responsabilità del tracollo alla partecipazione al governo Draghi, sostenuta proprio dai rappresentanti locali di quelle aree dove la Lega è stata umiliata. In Forza Italia tutti hanno tirato un sospiro di sollievo di fronte a previsioni ben più fosche: finché Berlusconi rimane alla guida del partito, uno zoccolo duro continuerà a confermargli fedeltà e riconoscenza per averli salvati dal comunismo. Inoltre entrambi i partiti sconfitti beneficiano della vittoria dello schieramento di destra, per cui entrano di nuovo al governo, con tutto quello che comporta l’occupazione del potere.
Nei 5Stelle si è respirato lo stesso clima di casa forzista per lo scampato pericolo. Bene ha fatto “il Fatto Quotidiano” a pubblicare l’infinita litania dei commenti giornalistici che preconizzano la fine ingloriosa dei pentastellati guidati dall’“avvocato di Volturara Appula” (dizione che indica tutto il disprezzo elitista dei quartieri alti per chi viene dalla provincia e si è fatto da sé). Quell’elenco di commenti esprimeva il pensiero dominante nell’establishment mediatico: però, come in tante altre occasioni, questa visione non ha trovato riscontro nella realtà. Quindi, proprio perché la “communis opinio” insisteva sull’emarginazione, se non sulla scomparsa, del M5S, il dimezzamento dei voti è stato percepito da tutti, non solo dai pentastellati, come un successo. Ciò a riprova che le valutazioni sui risultati elettorali, nell’arena politico-mediatica, si fanno sulla base delle aspettative, a loro volta sollecitate da sondaggi più o meno accurati e da quanto dicono in televisione alcune decine di persone che ruotano tra le trasmissioni e i canali come palline di un flipper.
Allora, per quale motivo il 19% del Pd, equivalente a un +0,2% rispetto al 2018, è l’emblema di una disfatta catastrofica? Per quale motivo l’unico altro partito insieme a FdI che avanza è l’epicentro di tutte le critiche, mentre gli altri vanno avanti come se nulla fosse? Per i due partiti di destra, si è detto: entrano comunque al governo e quindi tutto il resto non conta. Il M5S sopravvive gagliardamente grazie a risultati roboanti in alcune zone del Sud. Il Pd invece non entra al governo, né aumenta significativamente, come sperava, il suo consenso. È la delusione che innesca il profluvio di critiche, tali addirittura da mettere in discussione l’esistenza stessa del partito. La decisione di Enrico Letta di prendere atto del mancato successo annunciando la sua non-ricandidatura al prossimo congresso (cosa ben diversa dalle dimissioni) dice tutto del suo stile.
È la delusione delle aspettative a innescare il profluvio di critiche. E la decisione di Enrico Letta di non ricandidarsi al prossimo congresso (cosa ben diversa dalle dimissioni) dice tutto del suo stile
Qualcuno ricorderà la conferenza stampa di Matteo Renzi dopo che il Pd aveva perso quasi il 7% dei voti – e sorvoliamo sul -21% (sic!) rispetto alle europee del 2014. Nonostante quella sconfitta epocale, che non ha paragoni nella storia della sinistra – a meno di non ritornare al passaggio tra Pci e Pds (dal 26,6% al 16,1%), senza però contare il 5,6% degli scissionisti di Rifondazione – un Renzi sereno come un cherubino buttò tutta la responsabilità sul povero Gentiloni. E si preparò a mangiare pop-corn insieme all’amico Orfini, per godersi lo spettacolo del nuovo governo. Lo stile di Letta è altra cosa, come si è visto. Richiamato come un papa straniero dalla cattività avignonese per salvare un partito sconvolto dalle dimissioni di Nicola Zingaretti (il quale “si vergognava del proprio partito”), si è reso conto che averlo salvato non è bastato. In realtà gli si richiedeva un rilancio. Era possibile fare di più? Impossibile affermarlo, ovviamente. Benché alcune ipotesi possano essere formulate. E rimandano a questioni sia di lungo periodo (strutturali, se vogliamo) sia contingenti (di tattica politica).
Sul primo aspetto sembra che improvvisamente si sia scoperto che il Pd non attira più la componente sottoprivilegiata dalla società italiana. E giù alti lai per questa sua disconnessione. Insomma, si è scoperto che il partito che inneggiava alla precarietà con il Jobs Act e il cui leader (Matteo Renzi) dichiarava di stare dalla parte di Marchionne piuttosto che da quella dei sindacati e degli operai non attiva più le classi popolari. Ma che strano. E, a onor del vero, Renzi ha portato alla cuspide un processo iniziato ben prima, da quando gli ex comunisti hanno pensato di “farsi mondare dal loro peccato originale “diventando più realisti del re sul terreno economico-sociale. Inoltre, il fuoco di sbarramento contro il reddito di cittadinanza, finalmente introdotto in Italia, buoni ultimi in Europa (tutti populisti gli altri?), poteva essere apprezzato da chi non arriva alla fine del mese? O le statistiche sulla povertà in Italia sono tutte farlocche? Fatto sta che chiunque avesse avuto l’umiltà di guardare le analisi condotte negli ultimi decenni sul comportamento elettorale avrebbe constatato l’erosione della presa sui ceti popolari. Il volume Come votano le periferie, curato da Marco Valbruzzi (Il Mulino, 2021), ne offre la più recente, e convincente, illustrazione.
Il Pd ha resistito fin qui perché ha attratto la borghesia “cittadina” e istruita, grazie al suo impegno sui diritti civili (e, almeno in questo, un qualche merito va riconosciuto anche a Renzi). Ma nel momento in cui è sorto un potenziale contendente su questo terreno come il cartello Italia Viva-Azione, una gran parte di quei consensi è andata proprio lì.
Il modesto risultato del Pd ha ragioni antiche, a cui non porrà rimedio in breve tempo perché la reputazione, una volta persa, si recupera a fatica, e contingenti, di tattica politico-elettorale
A questo deficit di lungo periodo sul piano dell’appeal sociale si è aggiunto un deficit di tattica politica. Le cronache hanno raccontato nel dettaglio l’amarezza di Letta per non essere riuscito a convincere Giuseppe Conte a non sfiduciare il governo. Questo strappo ha interrotto ogni rapporto tra Pd e M5S. L’ipotesi di un fronte repubblicano, adesso riemerso come un’araba fenice dopo essere stato demonizzato dalla quasi totalità dei commentatori, veniva seppellita. E, dall’altra parte, naufragava anche il campo larghino: Carlo Calenda, terrorizzato per l’accordo con quei sovversivi di Fratoianni e Bonelli che, ovviamente, avrebbero egemonizzato il campo larghino, archiviava subito il bacio scoccato a Enrico due giorni prima. Il segretario del Pd è rimasto praticamente solo, affiancato soltanto dalla serietà di Emma Bonino, oltre che dai pericolosi figuri di cui sopra. In parte, è certo responsabilità sua non aver avuto la spregiudicatezza di passar sopra all’affronto personale, oltre che politico, di Conte; mentre forse nulla poteva nei confronti della volubilità egocentrica di Calenda. Il modesto risultato del Pd ha quindi ragioni antiche, a cui non porrà rimedio in breve tempo perché la reputazione, una volta persa, si recupera a fatica, e contingenti, di tattica politico-elettorale.
In conclusione, è il misero guadagno dello 0,2% tale da dover dichiarare fallimento, e chiudere il partito? E se invece il Pd avesse rosicchiato due punti in più, si sarebbe levato un tale bailamme? Interrogativi aperti. Mentre un punto è chiaro: per rimanere nel solco della socialdemocrazia il Pd, come altri partiti della stessa famiglia politica in Europa, deve rivedere radicalmente la sua agenda politico- sociale e fare della giustizia sociale, nonché ambientale e di genere, il suo orizzonte politico.
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