C’è voluto un anno e passa dal colpo di Stato di Kais Saied perché partiti e società civile capissero che chi ha preso i pieni poteri non ha nessuna intenzione di rinunciarvi: cerca, invece, di eliminare o sottomettere tutti i corpi intermedi. A dimostrarlo, le due ultime novità del panorama economico e politico: l’accordo governo-sindacato, che apre la strada a quello tra governo e Fmi, e la nuova legge elettorale con la quale il popolo viene chiamato a votare alle politiche di dicembre.
Ricordiamo che dall’anno scorso la popolazione, contrariamente a quanto sperava, ha visto le proprie condizioni economiche peggiorare. All’inflazione che ha raggiunto l’8% si è aggiunta una drammatica penuria di beni di prima necessità: idrocarburi, farina, latte, olio vegetale, zucchero, caffè. Colpa della guerra russo-ucraina, ma conseguenza altresì di uno Stato che detiene il monopolio di una buona parte delle importazioni e che, oltre alla vecchia incapacità di gestione degli stock, oggi non ha più soldi in cassa per pagare i fornitori.
In questo contesto si colloca il lungo braccio di ferro tra il governo e l’Ugtt, la principale unione sindacale del Paese, mentre in parallelo sono in corso i negoziati tra governo e Fmi per l’erogazione di un nuovo, indispensabile, prestito. Un prestito che l’Fmi condiziona al congelamento dei salari e delle assunzioni nel settore pubblico, la ristrutturazione delle aziende di Stato e l’abolizione del sistema di sussidi – che permette di mantenere bassi i prezzi di idrocarburi e alimenti di prima necessità – da sostituire con transfert monetari a favore dei soli strati più poveri. Queste misure colpirebbero soprattutto il ceto medio statale e parastatale, cioè la base dell’Ugtt, che da mesi andava chiedendo aumenti salariali dell’8%. Proprio per questo l’Fmi ha richiesto anche la firma del sindacato sul piano di riforme a garanzia della pace sociale, dando così all’Ugtt un formidabile strumento di pressione. E generando l’inedita impasse tra un governo cui il Fmi chiede di bloccare i salari e un sindacato a cui dà un potere di veto.
In questo contesto si colloca il lungo braccio di ferro tra il governo e l’Ugtt, la principale unione sindacale del Paese, mentre in parallelo sono in corso i negoziati tra governo e Fmi per l’erogazione di un nuovo, indispensabile, prestito
L’inaspettato scioglimento si ha quando Kais Saied, dopo aver lasciato la sua prima ministra Bouden scornarsi con il delegato Ugtt, convoca a palazzo il segretario dell’Ugtt e quello del sindacato padronale Utica. Tre giorni dopo – miracolo – l’accordo viene trovato e contiene i sospirati aumenti salariali. Poco importa che questi – del 5% dal 2023 – siano lontani dal punto di partenza: l’Ugtt si è mostrata ancora una volta capace di mandare in porto quelle rincorse salariali che hanno svuotato le casse dello Stato dopo la rivoluzione. Spiegava un anziano professore a chi si sorprendeva dell’intestardirsi dell’Ugtt in un apparente vicolo cieco: «L’Ugtt vuole che il governo riconosca di aver bisogno di lei. In cambio si impegnerà a tener buona la sua base». Infatti Kais Saied, pur presentandosi come deus ex machina, ha dovuto convocare il sindacato, il quale per mesi, dopo il colpo di Stato, aveva chiesto invano di essere ricevuto e che oggi si presenta come il vero vincitore.
L’Utica non sarà contenta. Ancora di meno lo sarà la Conect, la Confederazione delle imprese civiche (le Pmi) fondata a ridosso della rivoluzione. Per non parlare degli economisti che sostenevano che di aumenti non si parla finché non riprende la crescita. Paradossalmente, potrebbe invece dichiararsi soddisfatto il Fmi. Fitch Ratings, subito dopo l’accordo governo-sindacato, ha dichiarato che «anche l’accordo con il Fmi appare ora molto probabile». Come mai? Secondo un alto funzionario della finanza, «il Fmi ha bisogno che gli venga presentato un compitino credibile. Poi decide se dare all’allievo la spinta necessaria per portarlo alla sufficienza». La Tunisia di Kais Saied è l’allievo che va promosso a tutti i costi. Questo spiega (al netto di trattative a porte chiuse) come mai il Paese non abbia ancora fatto quella bancarotta che pareva imminente e sulla quale contava anche l’opposizione per un rapido crollo del regime.
Tolleranza analoga a quella del Fmi verso gli indicatori economici si riscontra da tempo da parte delle democrazie occidentali per quanto riguarda gli standard democratici. La nuova legge elettorale, promulgata dal presidente per decreto in assenza del Parlamento, è un bricolage di emendamenti che rovesciano l’intero impianto di quella precedente. Prevede nuove circoscrizioni elettorali; sostituisce il voto di lista con lo scrutinio uninominale; richiede ai candidati la presentazione di quattrocento firme di sostegno, di un programma elettorale e di un casellario giudiziario vergine; introduce la possibilità di revoca degli eletti. Specchietto per le allodole: la norma che richiede che il 50% delle firme di parrainage siano di donne. Di fatto il nuovo sistema sostituisce al voto segreto di lista con candidature paritarie quella specie di voto palese che sono le sponsorizzazioni in circoscrizioni ristrette. Torneranno a pesare reti familiari e notabili locali che manderanno mogli e figlie a firmare per un candidato uomo.
La nuova legge elettorale, promulgata dal presidente per decreto in assenza del Parlamento, è un bricolage di emendamenti che rovesciano l’intero impianto di quella precedente
La maggior parte dei partiti politici ha già dichiarato il boicottaggio delle elezioni. E mentre escono di scena i partiti, a far da contrappeso al potere presidenziale restano le grandi corporazioni: Ugtt e Utica, ma anche l’Ordine degli avvocati che in questi giorni sta votando per il nuovo consiglio sulla base di una coalizione costruita in funzione antiislamista. Ritroviamo così i protagonisti del famoso Quartetto del dialogo nazionale, a cui venne conferito nel 2015 il Premio Nobel per aver contribuito a sostituire un Parlamento e un governo legittimamente eletti con un concistoro delle vecchie corporazioni. Queste oggi non si oppongono al regime, ma chiedono solo di essergli associati. Tutto ciò, ancora una volta, con il plauso dell’Occidente, accompagnato dal mantra secondo cui la democrazia è incompatibile con la mentalità arabo-islamica. Per questo al nuovo regime autoritario in Tunisia non si chiede nemmeno di avere i conti in ordine. Basta che mantenga l’ordine tout court.
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