Le giornate sono ancora caldissime in questa Tunisi di fine estate. L’orario unico estivo porta gente sulle spiagge di giorno, lo slittamento del coprifuoco a mezzanotte riempie caffè e ristoranti la sera. Se provi a parlare di politica ti rispondono educatamente: «Vedremo cosa farà Lui…».

Lui è Kais Saied, il presidente della Repubblica, che un mese fa, la sera del 25 luglio, dopo una giornata puntellata da manifestazioni di protesta contro il Parlamento e da attacchi alle sedi di Ennhdha (il Movimento della rinascita islamica), dimette il governo e «congela» il Parlamento, avocando a sé il potere esecutivo e legislativo, revoca l’immunità parlamentare e si autoproclama procuratore generale della Repubblica. Al presidente del Parlamento Rashid Ghannushi e a un gruppo di deputati viene impedito dall’esercito l’accesso alla sede e mentre pochi rispondono all’appello di Ennahdha a manifestare contro le misure di Kais Saied in diversi quartieri della capitale, la gente scende in strada a festeggiarle a colpi di clacson.

Nei giorni successivi, a una diffusa soddisfazione popolare si accompagna un attonito silenzio dei partiti, un generale attendismo della società civile e un rapido allineamento di diversi intellettuali sulle posizioni del presidente. I partiti – a eccezione di Ennhdha – evitano di parlare di colpo di Stato preferendo formule come «interpretazione errata» dell’articolo 80 della Costituzione. Il potente sindacato Ugtt manifesta il suo sostegno al presidente, salvo fare una timida marcia indietro quando quest’ultimo rifiuta di coinvolgerlo nella gestione della crisi. La sfera pubblica accademica e mediatica rende omaggio al presidente invocando contro il principio di legalità «i diritti della Storia», mentre viene pesantemente attaccato chi parla di violazione della Costituzione.

La sfera pubblica accademica e mediatica rende omaggio al presidente invocando contro il principio di legalità “i diritti della Storia”, mentre viene pesantemente attaccato chi parla di violazione della Costituzione

Nel frattempo Kais Saied sostituisce le figure chiave del ministero degli Interni con uomini da lui nominati e lo stesso fa in seguito nei dicasteri economici e finanziari. Rimuove con accuse di corruzione diversi governatori regionali, procede ad arresti in seno alla magistratura, licenzia il responsabile della Tv nazionale. In occasione di uscite pubbliche denuncia complotti per assassinarlo, si scaglia contro le manovre speculative degli «affamatori del popolo» e definisce il Parlamento «una minaccia per lo Stato». E ogni giorno filtrano notizie di arresti, domicilio coatto o divieto di espatrio che riguardano deputati, politici, uomini d’affari, magistrati, sulla base di provvedimenti spesso eseguiti brevemente e senza alcuna notifica formale.

A fronte di questo quadro gli attori politici, la società civile e i corpi intermedi hanno atteso che passassero i trenta giorni menzionati nell’articolo 80 della Costituzione e identificati – non è chiaro perché – come il termine allo scadere del quale Kais Saied avrebbe perlomeno indicato una roadmap per il ritorno al funzionamento normale delle istituzioni. Questa attesa fiduciosa – malgrado alcune voci allarmate – la dice lunga su quanto gli anticorpi democratici della società tunisina fossero già indeboliti: nella capitale pareva che nulla fosse successo e ciò era considerato un buon segno, mentre le grandi catene televisive trasmettevano solo varietà e soap opera.

Quando allo scadere dei fatidici trenta giorni Kais Saied ha annunciato con un semplice post sulla sua pagina Facebook la proroga dei poteri eccezionali «fino a nuovo ordine» si sono infine levate voci di dissenso. In rete queste sono state messe prontamente a tacere da truppe organizzate di cyberbullismo con la nuova parola d’ordine che suona: «Avete taciuto per dieci anni e ora volete che Lui risolva tutto subito? Fate silenzio e lasciatelo lavorare».

Come si è giunti a questa situazione? In questi dieci anni (niente affatto silenziosi) le forze politiche al potere – sotto l’egida di Ennahdha che ci ha creduto fermamente – hanno dato la priorità al processo di institution-building democratico mentre non sono riuscite a metter mano né alla riforma di un’economia fortemente statalista né a quella di uno Stato burocratico e clientelare, né tantomeno a combattere efficacemente la corruzione che queste strutture alimentano.

Le rivendicazioni selvagge sostenute dall’Ugtt hanno portato a un raddoppio della massa salariale pubblica a fronte di un crollo della produttività. La conseguente inflazione ha impoverito la classe media mentre nulla arrivava alle classi più povere e ai giovani. Le politiche di redistribuzione territoriale (iscritte nella Costituzione) a favore delle aree interne hanno irritato le regioni urbane e costiere dove si produce l’85% del Pil senza giovare alle aree interne a causa dell’incapacità dello Stato di spendere le pur generose risorse budgetarie a esse assegnate.

La pandemia che ha colpito ferocemente una Tunisia sprovvista di risorse è stata l’assist finale per porre fine all’“eccezione tunisina”, unica democrazia del mondo arabo e unica guidata da un partito di ispirazione islamica

Queste cose nessuno ha saputo o voluto spiegarle. La sfera pubblica egemonica è passata dalla denuncia del «pericolo islamico» a quella dei politici corrotti mentre Ennhdha, accusata prima di terrorismo poi di aver messo il Paese sul lastrico, non è mai riuscito a costruire una contro-narrativa. In queste condizioni il conflitto istituzionale che negli ultimi due anni ha contrapposto presidenza e Parlamento, la delegittimazione di quest’ultimo grazie alla presenza rissosa del Pdl (di ispirazione benalista) della focosa Abir Mussi, una campagna anti-Ennahdha su Facebook troppo potente per essere spontanea, hanno costellato il quadro favorevole per una spallata decisiva, dopo dieci anni di tentativi sventati, alla giovane democrazia tunisina.

La pandemia che ha colpito ferocemente una Tunisia sprovvista di risorse è stata l’assist finale per porre fine all’«eccezione tunisina», unica democrazia del mondo arabo e unica guidata da un partito di ispirazione islamica. Un modello politicamente pericoloso per gli sponsor regionali del colpo di Stato e culturalmente indigesto per parte di una società che ha per riferimento lo stile di vita europeo.

Se per sbarazzarsi di Ennahdha occorreva sbarazzarsi di un Parlamento democratico, ciò per i primi era tanto di guadagnato mentre per la seconda era un basso prezzo da pagare, convinta com’è che poi le cose andranno a posto e la Tunisia sarà una democrazia infine libera da riferimenti all’Islam. Se questo rappresenta un tragico errore, ad esso si affianca il doloroso paradosso di Ennhdha, che ha puntato tutto sulla costruzione delle istituzioni democratiche e oggi è alle prese con una società che odia il Parlamento e una comunità internazionale che considera la sua Costituzione un pezzo di carta sacrificabile alla realpolitik.