Un anno dopo. È passato poco più di un anno dalla rivoluzione tunisina: una rivoluzione in nome della dignità, del pane e della libertà cui è seguito un voto in nome di Allah. Il partito islamico maggioritario Ennahdha ha formato un governo di coalizione con un partito di sinistra (Cpr) e uno socialdemocratico (Ettakatol), lasciando all’opposizione un gruppetto di partiti laici e modernisti. Mentre questi non riescono a trovare una strategia comune, una piccola ma agguerrita frangia di integralisti sta tentando di portare avanti l’islamizzazione dello spazio pubblico. Emblematica in questo senso la vicenda dell’università della Manouba dove due settimane dopo le elezioni, il 6 dicembre, un pugno di studenti salafiti ha occupato gli uffici e bloccato il preside per rivendicare l’accesso a corsi ed esami delle studentesse con il niqab – il velo integrale dei Paesi del Golfo che lascia solo una fessura all’altezza degli occhi.
La Facoltà di Lettere, arti e discipline umanistiche della Manouba (Flahm), simbolo di pensiero critico e di sinistra, è dislocata in un lontano sobborgo di Tunisi, difficile da raggiungere, facile da accerchiare. Attira studenti e studentesse di condizioni modeste e richiede per l’accesso un punteggio relativamente basso, poco selettivo. Il preside della facoltà, Habib Kazdaghli, è un noto e stimato storico. Il fatto che si occupi di storia della comunità ebraica in Tunisia e che militi in un partito della sinistra laica contribuisce a farne un bersaglio dell’estremismo islamico. Il braccio di ferro che ha condotto per un paio di mesi è stato dettato dalla consapevolezza del valore simbolico della posta in gioco. Sicché, dopo aver passato notti insonni assediato nel suo studio, avendo infine ottenuto il ritiro degli islamisti, una tardiva dichiarazione del ministro dell’Interno (“l’islam non prescrive il niqab e gli studenti debbono rispettare le regole”), nonché una dichiarazione congiunta dei presidi delle cinque facoltà di Lettere del Paese (rifiuto categorico del niqab in ambiente universitario “per ragioni pedagogiche e comunicative”) Kazdhagli manifesta un cauto ottimismo: “La cosa più importante”, dice, “è che siamo riusciti a mandare in porto la sessione di esami appena conclusa: se i salafiti fossero riusciti a bloccarla sarebbe stato una catastrofe. E non abbiamo ceduto sulle questioni di sicurezza stabilite dopo il 6 gennaio, quando le forze dell’ordine li hanno (molto garbatamente) costretti a sloggiare”.
Kazdaghli ha cercato a lungo di evitare il ricorso alle forze dell’ordine. Far entrare la polizia all’università non entusiasma chi per anni ne ha difeso l’autonomia sotto un regime dittatoriale (e i presidi nel loro documento hanno ribadito che non vogliono forze di sicurezza permanenti). Ma quando si è appellato al ministero dell’Insegnamento Superiore e della Ricerca Scientifica, ha trovato una reazione assai tiepida. “Il ministero voleva convincerci a tornare sui nostri passi” racconta. “Ci chiedevano di minimizzare, di lasciare correre. Ma non potevamo perché la posta in gioco è una visione della società, quella che i salafisti vorrebbero imporre, approfittando dell’instabilità legata ad un periodo di transizione. Non a caso sono entrati in azione mentre un governo (quello di Béji Caìd Essbsi) se ne stava andando e un altro (quello di Jebali) era in via di formazione, contando sull’avvento di un nuovo governo a loro favorevole”. Quanto lo è realmente? “Il governo è ambivalente” sostiene Kazdhaghli. “Ennahdha vuole mostrare un volto rassicurante all’opinione pubblica ma vuole al contempo recuperare a proprio beneficio i salafiti con i quali condivide una visione più generale. Se non li ha incitati cerca però di incontrarli a metà strada. Tanto è vero che non ha mai condannato esplicitamente la loro azione. Tutto questo può peraltro rivelarsi un boomerang per Ennahdha. Nel Paese in questi giorni sono stati scoperti dei gruppi armati che la gente potrebbe identificare con i salafiti. Ed Ennahdha teme di venire assimilata a quella gente”
A La Manouba i salafiti militanti sono poche decine, le studentesse con il niqab ancora meno. Colpisce caso mai la passività di molti studenti nei quali Kazdaghli ravvisa “un certo conservatorismo”. Qui i docenti hanno visto l’uso del velo diffondersi ben prima della rivoluzione. E oggi assistono stupefatti al prender piede in ambiente universitario del cosiddetto “matrimonio consuetudinario” – vietato dalla legge ma fondato sul Corano – che richiede solo due testimoni e rende “halal” (lecite) le convivenze senza costosi matrimoni. Per Kazdaghli, la tentazione religiosa integralista nasce anche dalla mancanza di prospettive e dall’incertezza del futuro, comuni alla maggioranza degli studenti. E aggiunge: “La Flahm è una facoltà che insegna lingue e civilizzazione dei Paesi europei. Ma molti dei nostri studenti non avranno mai la possibilità di conoscere quei Paesi, di praticarvi le lingue apprese. Se troviamo, nel nostro Dipartimento di Italianistica, delle ragazze con il niqab, questo è il segno di un nostro fallimento. Perché quelle studentesse non potranno mai insegnare”.
Alle radici dell’islamizzazione dello spazio pubblico sta un intreccio assai complesso di fattori storici, sociali, culturali. Ma vi sono momenti in cui il disagio dei professori (ancora di più se donne), il conformismo degli studenti (e soprattutto delle studentesse) e le urla dei giovani salafiti evocano irresistibilmente i fantasmi dello squadrismo.
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