La democrazia un anno dopo. Il 23 ottobre, la “data-incubo nell’immaginario dei tunisini” - secondo i titoli sempre più allarmistici comparsi sulla stampa per diverse settimane - è trascorso; il Paese ha tirato un sospiro di sollievo e ha celebrato l’Aid el kebir, la “grande festa” dei musulmani. L’anniversario delle prime elezioni democratiche, svoltesi il 23 ottobre 2011, segnava infatti, secondo le forze di opposizione, anche la “scadenza della legittimità elettorale” dell’Assemblea nazionale costituente: sia perché il decreto di convocazione delle elezioni fissava il termine di un anno per la redazione della nuova Costituzione (cosa ancora non fatta), sia perché un “patto di buona condotta” firmato da dodici partiti (ma non dal Cpr dell’attuale presidente della Repubblica Marzouki) li impegnava “moralmente” a limitare il periodo della transizione a un anno.
Un martellante battage mediatico intorno a questo time over ha accompagnato per mesi la ricomposizione di un’opposizione frammentata, le cui forze un anno fa hanno subito una pesante sconfitta elettorale a opera del partito islamista Ennahdha. Mentre l’ex premier del governo transitorio Béji Caid Essebsi mobilitava vecchi burghibisti e laico-modernisti delusi sotto l’egida di una nuova formazione (Nida Tounès), il sindacato unitario, la potente Ugtt, convocava il 16 ottobre, una settimana prima della “scadenza fatidica”, un “consiglio del dialogo nazionale”. Si chiedeva il ritorno al governo “par consensus”, cioè tramite accordi tra rappresentanti dei partiti e della società civile, come nella fase di transizione: un azzeramento della faticosa costruzione di legittimità giuridico-istituzionale da tutti invocata e da tutti applaudita l’anno scorso. A queste pressioni, il governo ha risposto dribblando l’Ugtt e annunciando, il 14 ottobre, la data delle elezioni legislative (il 23 giungo 2013), l’accordo raggiunto sul nuovo regime (semi-presidenziale) e l’istituzione delle authorities per la stampa e le elezioni.
Ciò non ha impedito che si arrivasse, alla vigilia del 23 ottobre, vicino allo scontro frontale. Da un lato, il governo ha rifiutato di partecipare all’inziativa dell’Ugtt a causa della presenza di Nida Tounès, considerata una ricostituzione dell’Rcd (il partito quasi-unico di Ben Ali), dall’altro, l’opposizione ha alzato la posta chiedendo un governo di unità nazionale e delle personalità “indipendenti” alla testa dei ministeri sovrani (Interni, Esteri, Giustizia). L’acme della tensione è stata raggiunta il 19 ottobre quando a Tataouine, nel profondo sud, nel corso di una manifestazione poi degenerata in scontri, ha perso la vita il coordinatore locale di Nida Tounès: l’indomani Caid Essebsi parlava senza mezzi termini del “primo omicidio politico dopo la rivoluzione”.
Poi improvvisamente tutti hanno fatto un passo indietro. Il sindacato ha riconosciuto la legittimità dell’Anc. Il governo ha fornito alle manifestazioni dell’opposizione – quella ufficiale del 22 ottobre, quelle non autorizzate del giorno seguente – un servizio d’ordine impeccabile. La brusca retromarcia dell’opposizione riceve diverse spiegazioni di cui la più consistente è quella dell’assenza di un appoggio di massa: alla manifestazione del 22 ottobre vi erano circa tremila persone, molti leader e poca base, molte élite e poco popolo. L’indomani, i deputati dell’opposizione hanno boicottato la seduta straordinaria per l’anniversario del 23 ottobre e la lettura del preambolo della nuova Costituzione si è svolta in un’aula semi-vuota.
Poco piene le piazze, mezzo vuoto il Parlamento, il 23 ottobre di quest’anno ha quindi avuto poco della scadenza festosa dell’anno scorso. Eppure l’esperienza di un anno di legittimità democratica non si chiude con un bilancio tutto negativo.
Sul piano delle libertà civili, il mutamento radicale avvenuto la notte del 14 gennaio persiste: la libertà di parola, di opinione, di manifestazione e di associazione ci sono e “per sempre”, affermano categoricamente i più giovani che hanno scoperto l’impegno nei partiti o nella società civile.
Sul piano istituzionale gli organi usciti dalle elezioni non hanno brillato: il governo in carica ha applicato un rigido spoils system, la nuova classe politica ha rivelato scarse competenze tecniche e poco controllo sulla pubblica amminsitrazione, l’Assemblea costituente si è impantanata in dibattiti ideologici, la gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico ha conosciuto pagine nere come quella dell’assalto all’ambasciata americana. A fronte di ciò, tuttavia, gli indicatori relativi alla performance economica – crescita, ratings, scambi e turismo – sono più che rispettabili come pure i riconoscimenti provenienti dall’estero. Sul piano politico, la ricomposizione dell’opposizione in un “blocco democratico” che riunisce la componente burghibista (Nida Tounès), quella liberaldemocratica (Al Joumhouri) e l’intellighenzia di sinistra (Al Massar) sembra dare l’avvio alla formazione di un polo laico-modernista a fronte di quello islamico-conservatore. Il guaio è che in Tunisia la prospettiva bipolare non entusiasma nessuno: tutti temono la spaccatura in due del Paese al punto che si affaccia la prospettiva inedita di un Fronte popolare di estrema sinistra, candidato al ruolo di “terza forza”.
Sul piano sociale, infine, l’emersione di una cultura arabo-islamica a lungo rimossa è evidente: cosa ciò comporterà in futuro in termini di modello di sviluppo, processi intellettuali, stili di vita e valori è invece questione aperta.
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