Negli ultimi anni non sono mancate discussioni sulle conseguenze elettorali – potenzialmente sciagurate – di un calo generalizzato di fiducia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa. Penso ai lavori di Russell Dalton e Pippa Norris tra gli altri, datati ormai oltre un decennio orsono. Eppure, traspare abbastanza chiara questa tendenza dei circoli politologici più esclusivi (in primis, riviste mainstream e blog alla Monkey Cage) a liquidare il tutto con l'attribuzione – sbrigativa, e in parte anche strumentale – della colpa ai sondaggi di opinione. Per poi ovviamente andare avanti col business as usual. Vale a dire: tornare a discutere di quello che sarà sulla base di modelli teorici interpretativi sempre più incapaci di comprendere (figuriamoci prevedere) il caotico quadro di trasformazioni socio-politiche odierne. Il tutto con la dubbia credibilità agli occhi di chi da fuori ci ascolta – e per inciso, paga la stragrande maggioranza dei nostri salari – di quelli che (non) sapevano di non sapere.
Una riflessione preliminare sui sondaggi. Sbagliano principalmente perché è ovvio che sbaglino. I sondaggi non prevedono nulla, in sé per sé. Si limitano piuttosto a registrare intenzioni, relative all’istante in cui sono misurate e sempre più malleabili. Praticamente tutte le analisi sul tema convengono sulla crescita generalizzata degli indecisi e del progressivo ritardo nel timing della scelta di voto. Stando alle più recenti analisi comparate, un elettore su due dichiara di decidere durante la campagna elettorale, ed uno su dieci addirittura il giorno stesso del voto. In questo quadro di imprevedibilità sistemica, rimane piuttosto difficile attribuire ai sondaggi più colpe di quelle che sia obiettivamente necessario ascrivere loro.
Sia chiaro: i sondaggi sbagliano anche per altri motivi, conosciuti ormai da tempo. Ad esempio, il cosiddetto social desirability bias. Vale a dire, l’idea che gli intervistati possano manifestare riluttanza a dichiarare che voteranno «per il cattivo». Un’idea, a dire il vero, supportata da abbondanti evidenze empiriche. Ma che non spiega fino in fondo la capacità limitata dei sondaggi di misurare la pancia dell’elettorato oggi più sfuggente e pertanto imprevedibile. Perché se da un lato abbiamo elettori tuttora inclini a nascondere all’intervistatore la propria intenzione di voto nell’ambito di lunghe interviste telefoniche, altri (sempre di più) decidono di non volerci parlare proprio con l’intervistatore, manifestando un’aperta ostilità nei confronti del sondaggio stesso come mezzo di comprensione dell’opinione pubblica. E come i primi, del resto, neanche questi «altri» sono distribuiti a caso. Stiamo parlando, proprio alla luce di quello che i sondaggi non avevano visto, di quegli elettori con le maggiori probabilità di considerare l’idea di votare il Trump di turno, magari a ridosso della scadenza elettorale.
Gli elettori anti-establishment sono, volenti o nolenti, un fenomeno in forte crescita nelle democrazie contemporanee. E sempre di più questi elettori tendono a vedere anche noi accademici – sociologi e politologi in primis – quale parte di quell’establishment che giudicano fallimentare, che semplicisticamente «sbaglia i sondaggi». Anche in conseguenza del fatto che il nostro oggetto di studio – l’elettorato – tende a fidarsi sempre meno di noi. In questo senso, dare sbrigativamente «la colpa» ai sondaggi (i più visibili fra gli indiziati, ma certamente non gli unici a non aver capito dove soffiasse il vento) rischia di avere come unico effetto quello di amplificare la sfiducia di tale elettorato nei confronti della nostra professione. In un circolo vizioso che rischia di rendere la scienza politica sempre più incapace di comprendere e prevedere, e pertanto sempre meno legittimata agli occhi di coloro di cui ragioniamo e scriviamo.
In una professione sempre più scissa tra ipersofisticazione metodologica che interessa a ben pochi al di fuori dei settori concorsuali, modelli formali che spiegano poco o niente e chiacchiere televisive nelle quali i politologi hanno ormai perso il grosso della loro credibilità, attaccare i sondaggi mi pare serva solo lo scopo di allargare la frattura crescente tra chi l’opinione pubblica pretende di studiarla (e capirla) ed i legittimi portatori di tale pubblica opinione. Piuttosto che liquidare la sondaggistica in quanto tale per la sua mancata capacità di indovinare i risultati elettorali, cerchiamo di mettere a frutto i suoi errori al fine – quello sì, centrale per la scienza politica tutta – di capire cosa bolle nella pancia di quell’elettorato che facciamo sempre più fatica a capire.
Concludo con un pensiero su quelli che rivedono nella lezione berlusconiana l’esempio premonitore del fenomeno Trump. Sostengono, a ragione, che gli Stati Uniti avessero qualcosa da imparare dall’esperienza italiana. Ma sono stati gli americani a non voler ascoltare questa lezione, o piuttosto siamo stati noi accademici italiani a non averla spiegata a dovere?
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