Secondo un sondaggio pubblicato da Gallup lo scorso 2 giugno, il 53% degli americani crede che Donald Trump, se eletto presidente, gestirebbe l’economia meglio di Hillary Clinton (il 43% pensa l’opposto). Una maggioranza degli americani è anche convinta che The Donald farebbe meglio di Hillary in termini di creazione di posti di lavoro (52% contro 45%), riduzione del deficit (57% contro 39%), tassazione (52% contro 44%), dimensione ed efficienza del governo federale (55% contro 41%) e regolamentazione di Wall Street e del sistema bancario (53% contro 42%). In campo economico, Hillary Clinton prevale su Trump solo nella distribuzione del reddito e della ricchezza (51% contro 43%), sanità (56% contro 40%) e immigrazione (52% contro 44%). Altri sondaggi, condotti indipendentemente, confermano i risultati presentati da Gallup.
Questi dati possono apparire sorprendenti quando si comparano le proposte economiche dei due contendenti.
Donald Trump promette di ridurre le aliquote fiscali dell’imposta sul reddito dalle attuali sette (che variano tra il 10% ed il 39.1%) a tre (10%, 15% e 25%) e di portare la tassa sulle società dal 35% al 15%, nonché di eliminare la tassa di successione e la sovrattassa del 3.5% sugli investimenti per finanziare Obamacare, che verrebbe a sua volta abolito. Le minori entrate dovrebbero essere parzialmente compensate da tagli nella spesa pubblica (che però non riguarderebbero pensioni, sanità e difesa) e da misure volte a tassare i profitti esteri delle imprese multinazionali e ridurre le esenzioni fiscali per i redditi più elevati. Dal lato del commercio internazionale, Trump si oppone alla ratificazione del Tpp (Trans-Pacific Partnership) e designerebbe la Cina come un Paese che manipola il proprio tasso di cambio, aprendo la via all’imposizione di tariffe punitive contro di essa. Tariffe più elevate potrebbero essere imposte anche al Messico, se quest’ultimo si rifiutasse di finanziare il muro. Secondo il candidato repubblicano, le proposte economiche da lui avanzate innalzerebbero in modo permanente la crescita dell’economia americana, portandola ad una media annuale del 5-6% (dal 2.1% attuale).
Se le proposte di Donald Trump sono «rivoluzionarie», quelle di Hillary Clinton sono incrementali. Nel suo programma economico («A plan to raise American incomes») ci sono proposte per ridurre le imposte per le famiglie a basso reddito, diminuire i tassi d’interesse agli studenti universitari indebitati per finanziare gli studi, aiutare le piccole imprese, investire in infrastrutture, educazione e ricerca, aumentare la partecipazione della forza-lavoro femminile, introdurre un credito d’imposta del 15% per le imprese che distribuiscono una parte dei profitti ai loro occupati e aumentare il salario minimo. Per finanziare questi interventi, la candidata democratica aumenterebbe l’imposizione fiscale effettiva per i redditi più elevati e la tassa sui capital gains. In campo industriale, Hillary Clinton propone di stanziare dieci miliardi di dollari per rilanciare l’industria manifatturiera, da finanziare in larga parte attraverso l’abolizione delle esenzioni fiscali per le imprese che delocalizzano posti di lavoro all’estero. Come Trump, in campo commerciale, la candidata democratica si oppone alla ratificazione del TPP. Nell’insieme, Hillary Clinton si situa nel solco del «terzo mandato di Obama», cercando di costruire su quanto l’attuale presidente ha realizzato nel corso dei due mandati. La candidata democratica non ha fornito cifre su quella che potrebbe essere la crescita statunitense in caso di realizzazione del suo programma, ma è probabile che una sua quantificazione la situerebbe nell’ordine del 2-3%.
Il Committee for a responsible federal budget ha quantificato i costi delle proposte dei due candidati. Nel caso di Donald Trump, il debito federale aumenterebbe di 12 mila miliardi di dollari in dieci anni, salendo dal 74% del Pil attuale al 129% nel 2026 (resosi conto che le riduzioni d’imposta suggerite avrebbero prodotto un buco eccessivo nel bilancio federale, in maggio Trump ha chiesto ad economisti a lui vicini di produrre un piano meno costoso di riforma della tassazione, che è ad oggi ancora in preparazione, ma sembra ridurrebbe l’incremento del debito su dieci anni da 12 mila miliardi a 3800 miliardi di dollari: una riduzione del 60% che però porterebbe comunque il debito federale attorno al 100% del Pil nel 2026). Al fine di ottenere il pareggio di bilancio, la spesa federale dovrebbe essere ridotta tra il 40% e l’80%. Se invece sanità, pensioni e difesa fossero escluse dai tagli, il pareggio di bilancio diventerebbe impossibile anche riducendo a zero tutte le altre spese (per esempio, educazione, ambiente, infrastrutture, ecc.).
Nel caso di Hillary Clinton, invece, i costi delle sue proposte ammonterebbero a 1800 miliardi di dollari su dieci anni, che però verrebbero compensati da entrate per 1600 miliardi sullo stesso periodo temporale. Complessivamente, le proposte della candidata democratica non aumenterebbero significativamente il deficit pubblico. Il debito continuerebbe però ad aumentare (a causa delle crescenti spese per la sanità e le pensioni) e raggiungerebbe l’86% del Pil nel 2026.
In campo commerciale, le proposte di Donald Trump rischiano di generare vere e proprie guerre commerciali, che produrrebbero incertezza, instabilità e volatilità finanziaria a livello globale. Certo, neanche Hillary, con la sua opposizione al Tpp, è una buona notizia per il commercio internazionale. Tuttavia nell’insieme la candidata democratica non rimetterebbe in questione le politiche di apertura e libero scambio attuate dagli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Infine, mentre i conti più o meno tornano nel programma economico di Hillary Clinton, non tornano assolutamente – almeno per il momento – nelle proposte di Donald Trump. Non c’è verso di pensare che gli Stati Uniti possano sfidare le leggi di gravità e crescere ad un tasso medio annuale del 5-6% (o anche del 3-4%, in più se in parallelo si vuole espellere dal Paese il 2-3% della popolazione e nel contempo creare un enorme buco nel bilancio federale).
Com’è possibile allora che una maggioranza di elettori statunitensi ritenga Trump più affidabile di Clinton sull’economia? Da una parte gioca sicuramente a favore di Trump il fatto di essere un uomo d’affari di successo. Come abbiamo sperimentato di prima mano in Italia con Berlusconi, il fatto che Trump sia un imprenditore che occupa migliaia di persone genera tra larghe fasce della popolazione un’impressione di competenza e concretezza che lo avvantaggia nei confronti della Clinton quando si parla di questioni economiche, indipendentemente dalle proposte presentate. Inoltre, tra il pubblico in generale si genera sovente una confusione tra business ed economia, con la relativa conclusione che un businessman di successo ne sa di più di politica economica di un buon politico (anche se sovente è vero il contrario).
«La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande» (Archiloco). Il riccio Trump, pur non sapendo molto di economia (almeno questo è quello che si può dedurre dalle sue proposte) conosce però una cosa importante, vale a dire che la maggioranza degli americani non ha ancora adattato le proprie aspettative alla realtà del mondo post-crisi. Di conseguenza, anche i buoni risultati ottenuti da Obama in campo economico (soprattutto se comparati con quelli del resto dei Paesi avanzati), sono considerati da molti americani come insufficienti, una sorta di mezzo fallimento. Questo perché l’economia non cresce al di sopra del 3% (come invece avveniva – aiutata da bolle speculative – prima del 2005) e il reddito della middle class ristagna. Trump sa che la maggioranza degli americani si aspetta che il prossimo presidente faccia meglio di Obama in campo economico ed ha promesso proprio questo. Pochi americani pensano veramente che il candidato repubblicano possa attuare il proprio programma e contano sul Congresso (indipendentemente da chi lo controlla) per bocciarne le proposte più irrealistiche e pericolose. Tuttavia, una maggioranza di essi sono più o meno fermamente convinti che riduzioni d’imposta non possono essere dannose per l’economia ed erroneamente considerano che il commercio internazionale sia un gioco a somma zero. In questa temperie, non è allora sorprendente che molti pensino che Trump disponga del profilo e delle doti necessarie per accelerare la crescita economica ed ottenere accordi commerciali più favorevoli per gli Stati Uniti (con effetti positivi su salari e occupazione) a discapito dei suoi competitori.
Pur essendo molto più competente ed articolata di Trump su questioni di politica economica, Hillary Clinton non dispone né di un semplice e chiaro messaggio economico, né di una proposta «ammiraglia» in grado di suscitare l’entusiasmo dei suoi sostenitori. Poter contare su un programma serio e coerente, non farcito di promesse irrealizzabili, non basta a soddisfare un elettorato le cui aspettative restano eccessivamente elevate (alimentate a destra dai repubblicani e a sinistra da Sanders). Tuttavia, la volpe Hillary sa molte più cose del riccio Trump. Di conseguenza, se saprà sfruttare questa superiore conoscenza e competenza, mostrando da un lato debolezze, incoerenze e pericolosità delle ricette di Trump e dall’altro che anche un programma economico realistico può generare speranza e cambiamento (non è forse Obamacare il più grande progetto redistributivo che si sia visto in un Paese avanzato negli ultimi trent’anni?), c’è ancora abbastanza tempo per riallineare l’opinione della maggioranza degli elettori statunitensi con quella della maggioranza degli economisti.
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