Secondo un’indagine di Confcommercio-Swg, ad aprile 2023 circa 16 milioni di italiani si sono messi in viaggio per una breve vacanza, approfittando della Pasqua e dei ponti festivi per recarsi in massa nelle località turistiche della penisola. Negli stessi giorni si è sviluppato per la prima volta un timido dibattito nazionale sui problemi del “troppo turismo”, partito dall’ipotesi di imporre un numero chiuso nei borghi delle Cinque Terre in Liguria e concluso con l’Alto Adige che lo ha fatto davvero. A quanto pare, mai prima di quel momento si erano percepite le destinazioni turistiche italiane così sovraffollate in un periodo primaverile, e questo sembra attribuibile a una duplice combinazione: la crisi economica, l’inflazione e il caro bollette che hanno disincentivato i più costosi spostamenti all’estero, scelti solo da 2 milioni di italiani (anche a causa dell’aumento dei biglietti dei voli low cost, a sua volta dovuto all’impennata dei costi energetici), e la sensazione di riacquistata libertà in quello che è stato il primo vero anno post-pandemia, senza cioè più i timori, le limitazioni e i lockdown che hanno caratterizzato il biennio 2020-2022. E così, l’aumento dei viaggi interni avvenuto in seguito alla pandemia ha reso l’overtourism un fenomeno pervasivo e diffuso per moltissime destinazioni italiane – che si tratti di località balneari o montane, piccoli borghi dell’entroterra o grandi città d’arte.

Sovraffollamento e invivibilità dei centri storici, carenza di alloggi a uso abitativo, disuguaglianza economica e danni ecologici sono problemi legati al “troppo turismo” di cui negli ultimi anni hanno parlato studiosi come Marco D’Eramo (Il selfie del mondo), Rudolphe Christin (Turismo di massa e usura del mondo, Manuale dell’antiturismo), Sarah Gainsforth (Airbnb città merce, Oltre il turismo) e Giacomo Maria Salerno (Per una critica dell’economia turistica); e le immagini dei centri storici deserti di Venezia e Firenze nel periodo del Covid-19 sono stati ulteriori moniti sull’estrema fragilità dei luoghi che hanno intrapreso la strada della monocoltura del turismo: basta un evento catastrofico come una pandemia o un’alluvione e il turismo cessa di esistere, senza che l’economia delle località vocate in modo esclusivo a questo settore abbia una possibilità alternativa di sopravvivenza.

Il turismo è ancora oggi pubblicamente percepito soprattutto per i suoi effetti benefici – più o meno presunti – e non anche per le potenziali conseguenze negative che può avere per l’ambiente, la società e gli esseri umani

Eppure il turismo è ancora oggi pubblicamente percepito soprattutto per i suoi effetti benefici – più o meno presunti – e non anche per le potenziali conseguenze negative che può avere per l’ambiente, la società e gli esseri umani. Lo fa capire l’espressione del “petrolio d’Italia” ancora oggi molto spesso usata da opinionisti e politici locali e nazionali, con l’attuale ministra Daniela Santanchè che ne è diventata quasi una paladina, usando questa metafora in quasi ogni sua dichiarazione pubblica sul tema, forse senza rendersi conto che, nella contemporaneità che grida l’abbandono delle energie fossili, quella del petrolio suona come una metafora sbagliata e vetusta. Ma d’altronde è davvero questa l’unica espressione possibile per definire l’attuale turismo di massa, in quanto «l’economia del turismo è un’economia estrattiva, che estrae valore dalla risorsa», come sostiene Sarah Gainsforth in Oltre il turismo (Eris, 2020): mentre i pozzi di petrolio sfruttano la materia prima finché è disponibile nel sottosuolo, il turismo ricava il suo valore dagli ambienti che lo fanno vivere (spiagge, montagne, città storiche); ma nel farlo compromette quel valore stesso. Che si tratti di uno spazio naturale oppure urbano, ogni destinazione turistica troppo sfruttata arriva a perdere la diversità e la tipicità che l’avevano resa tale, a favore dell’omologazione, del sovraffollamento e della distruzione ambientale. Poiché come tutte le industrie pesanti, anche il turismo ha bisogno di grandi infrastrutture per poter esistere: alberghi ed edifici residenziali, impianti di risalita in montagna e navi da crociera in mare sono l’equivalente delle acciaierie, dei cementifici e delle grandi fabbriche.

Tuttavia, in questi tempi di crisi ecologica, anche per il turismo è necessario un cambio di prospettiva, a partire da un nuovo modo di concepirlo che non può essere quello del “turismo sostenibile”, retorica dietro la quale si sono rifugiati i rappresentanti dei poteri politico-finanziari legati a questo settore, non potendo più nascondere la deriva catastrofica del turismo di massa (e anche qui la ministra Santanchè spicca per la vaghezza retorica delle sue dichiarazioni, avendo di recente proclamato lo stanziamento di 25 milioni di euro a favore del “turismo sostenibile”, che in realtà si è rivelato solo un generico incentivo per gli investimenti promozionali delle imprese ricettive declinati in chiave “green”).

Quello del “turismo sostenibile” è infatti un concetto per lo più ingannevole: se è forse vero che singoli progetti turistici possono essere sostenibili, uno sviluppo sostenibile globale basato esclusivamente sul turismo è semplicemente impossibile per la natura “mondofaga” di questa attività, come la definisce Rudolphe Christin in Turismo di massa e usura del mondo (eleuthera, 2019). Il “turismo sostenibile” non può sostituire le forme di turismo insostenibile; anzi rischia piuttosto di essere solo un’ulteriore offerta commerciale che andrà ad aggiungersi agli altri flussi e a compromettere altri territori e risorse, rivolgendosi peraltro a un certo tipo di clientela più benestante (e presumibilmente colta, proprio come avviene col cibo biologico, alternativa più sana ed ecologica rispetto agli alimenti industriali tradizionali, ma con costi maggiori del 60% che lo rendono un’esclusiva delle classi medio-alte).

Non c'è alternativa al turismo nel turismo, e per questo occorre partire dal ripensare completamente questa pratica, pur senza negarla

In sostanza, non c'è alternativa al turismo nel turismo, e per questo occorre partire dal ripensare completamente questa pratica, pur senza negarla. Poiché a tutti noi piace spostarsi e vedere luoghi nuovi, uno sguardo distaccato o dall’esterno sul “troppo turismo” non è possibile, anzi suona come saccente e antipatico: non esiste una distinzione fra noi stessi e “i turisti”, poiché siamo tutti turisti, reali o potenziali. È proprio per questo motivo che in Occidente ha preso piede la democratizzazione del turismo di massa: nel Novecento le vacanze, da pratica esclusiva delle classi sociali più agiate, sono diventate accessibili per una fascia più ampia di persone che ha avuto l’agognata possibilità di staccare dalla quotidianità e ammirare ciò che il mondo offre. Ma seguendo l’allargamento di prospettiva proposto da Christin, si scopre che il turismo oggi è in realtà praticato solo dal 3,5% della popolazione mondiale, quella più ricca e privilegiata. E davanti al collasso ambientale in corso e rispetto ai problemi sempre più gravi di sovraffollamento e inabitabilità legati al troppo turismo, anche per questa ristretta fascia di persone – ovvero noi occidentali – occorre una riflessione politica collettiva sulla necessità di ridurre i comportamenti individuali indotti dal turismo. Ciò innanzitutto in termini di distanza, cioè a partire dalla consapevolezza dell’enorme quantità di emissioni inquinanti di cui si diventa corresponsabili nel momento in cui saliamo su un aereo per fare migliaia di chilometri per trascorrere un fine settimana, che deve portarci a preferire mezzi di trasporto meno impattanti e di conseguenza a recarci in luoghi più vicini anche nei giorni di loisir. Il viaggio a lunga distanza per vacanze brevi, diventato normalità nel giro di un decennio grazie soprattutto alle compagnie low cost, è un lusso che nessuno dovrebbe più permettersi, perché il vero costo di quel biglietto a basso prezzo ricade sull’ambiente.

Ma la riflessione globale sul troppo turismo riguarda soprattutto il contenuto delle nostre vite. Il turismo non potrà mai diventare una pratica davvero non impattante, finché sarà inscritto nella logica della crescita infinita e della produttività capitalistica, nella quale le vacanze sono un desiderio indotto e imposto dalle cinque giornate settimanali per otto ore al giorno, con le ferie confinate a determinati periodi dell’anno (Natale, Pasqua, Ferragosto), che portano un’enorme massa di individui a sovraffollare le stesse poche destinazioni negli stessi giorni. Come propone Matteo Lupoli, un turismo che abbia una dimensione piccola, locale e a misura d’uomo, e che dunque non crei più problemi sociali e ambientali, richiede innanzitutto una riduzione degli orari lavorativi: ciò oltre a migliorare la produttività degli individui e renderli più felici, potrebbe ridurre gli impulsi agli spostamenti a grande distanza per le vacanze ed eviterebbe che queste siano concentrate negli stessi periodi e negli stessi luoghi. Si tratta di un radicale cambiamento sul piano culturale ed economico: con una maggiore quantità di tempo libero a disposizione per vivere meglio l’ambiente e la città in cui ognuno vive, il desiderio di evasione si può ridurre e limitare ai luoghi circostanti in maniera più diffusa per tutto l’arco dell’anno, dando importanza al viaggio e non alla meta, come auspica Christin in Manuale dell’antiturismo (Bordeaux, 2022). Per le amministrazioni locali, ciò non significherebbe più investire per attrarre grandi flussi di persone da lontano (con le conseguenti derive della monocoltura economica, dei grandi eventi, della speculazione edilizia e dei problemi abitativi), bensì per curare il proprio territorio e farlo vivere meglio a chi lo abita da dentro o da vicino. E il turismo stesso, dal fenomeno impattante e concentrato quale è oggi, come quello di un fiume in piena che esonda e allaga un’intera città distruggendola, diventerebbe una pratica diffusa e quotidiana come l’aria che ci circonda, invisibile e parte di noi, a tal punto da non essere più nemmeno un’eccezionalità.