Napoli, 21 giugno 2023. Una fila interminabile di zaini e t-shirt si snoda come un millepiedi colorato ai varchi dello Stadio Diego Armando Maradona. Lo stesso in cui, poche settimane fa, si è consumata la festa per la conquista del terzo scudetto, atteso per trentatré infiniti anni dai tifosi azzurri. “Gli anni di Cristo”, si affrettano a ribadire gli amanti della cabala, come se il paragone servisse a conferire una dimensione sacra alla vittoria. Il caldo è opprimente, l’umidità è un nemico che aspetta in trincea. È il primo vero giorno di calura insopportabile, lo stesso in cui sta per andare in scena l’esibizione dei Coldplay. Domani si replica per la seconda data partenopea, poi toccherà a Milano trasformarsi nel palcoscenico del concerto della celebre band londinese. La città meneghina è abituata a certi eventi, Napoli meno.

La presenza di Chris Martin e del suo gruppo ha portato in città quasi centomila presenze ed è stata celebrata dal sindaco Gaetano Manfredi come una delle tappe che starebbero segnando il nuovo rinascimento napoletano. Rinascimento che, diversamente da quello più strettamente culturale di metà anni Novanta, quando a guidare l’amministrazione comunale c’era l’ex comunista Antonio Bassolino e una nuova generazione di artisti si affacciava sulla scena nazionale teatrale, cinematografica e letteraria, oggi sembra passare attraverso la crescita incontrollata dei flussi turistici e il numero crescente di friggitorie e negozietti di street food che affollano il centro antico, patrimonio Unesco. Difatti oggi a Napoli nessuno parla di arte, cultura e movimenti (né il Comune di Napoli, né la Regione Campania hanno un assessore alla Cultura), ma solo di turisti, biglietti staccati e numero di presenze. Festival della mozzarella, del baccalà, di qualsiasi cosa passi per l’apparato digerente.

Oggi a Napoli nessuno parla di arte, cultura e movimenti ma solo di turisti, biglietti staccati e numero di presenze

D’altro canto la storica via dei musicisti in centro, via San Sebastiano, conta ormai soltanto tre negozi di strumenti musicali e almeno il triplo di baretti dove un cicchetto di liquore contraffatto puoi pagarlo due euro. Le stesse strade dell’animata vita notturna cittadina, dove, tra turisti ebbri di sfogliatelle e imbevibili spritz al limoncello, è possibile incappare in gruppi di minorenni armati fino ai denti. Di coltelli, tirapugni e, come nel tragico caso che ha portato alla morte del giovane Giovanbattista Cutolo lo scorso settembre, anche di pistole con proiettili veri.

Peccato che all’indomani della prima esibizione dei Coldplay, mentre il video di Chris Martin che canta Napul’è di Pino Daniele diventa virale in Rete (“molto meglio di quanto facciano altri cantanti italiani”, tuonano i napoletani sui social, che tutto possono accettare tranne di veder storpiato l’accento dell’amato dialetto), un buon numero di turisti accorsi da ogni parte del globo per assistere all’evento si stia precipitando in massa, sempre sui social, a raccontare il calvario del ritorno in hotel o negli alloggi affittati su Airbnb dopo il concerto. Già. A quanto pare nessuno, tra gli esponenti dell’amministrazione comunale incaricata di promuovere il "rinascimento", aveva messo in conto che quei non napoletani – cioè persone in gran parte provenienti da metropoli dotate di un servizio di trasporto pubblico decente e non munite di auto private – dovessero far ritorno nei loro alloggi.

Conclusi i peraltro insufficienti vagoni speciali della metropolitana, parte dei giovani turisti internazionali accorsi a Napoli ha amaramente scoperto che non c’erano altri modi per rientrare alla base se non camminare per chilometri verso il centro cittadino. Zero autobus, zero taxi. Nulla di nulla. Disservizi che per i residenti sono all’ordine del giorno e verso cui ormai i napoletani nutrono un atteggiamento di sconfortata rassegnazione, ma che per un francese o un olandese rappresentano qualcosa di inconcepibile.

Il sentiment negativo dei social divampa sotto i post auto-celebrativi delle istituzioni locali: sono sufficienti pochi commenti di chi ha vissuto in prima persona lo spiacevole disservizio ed ecco che la famigerata retorica del turismo-petrolio si inceppa. Il rinascimento si scontra di colpo con il de-branding del marchio che intendeva promuovere. Ma come? Se l’idea è ospitare i grandi eventi per aumentare i flussi turistici, come è possibile che non si riesca a elevare la qualità dei servizi per garantire la mobilità delle persone che intendono partecipare a quegli eventi? In poche parole, si fa largo la logica del ragioniere: quanto ricavano le casse comunali dal concedere a una delle più famose band musicali mondiali nientemeno che lo Stadio intitolato al D10S del pallone?

Risposta che, all’indomani, “Il Mattino” fornisce con solerzia: centomila euro. Più settemila di illuminazione. Cifra che, secondo l’amministrazione comunale, è insufficiente a coprire i costi di un servizio straordinario di trasporto pubblico all’altezza dell’evento. Insomma, per ammissione di chi si vanta dell’esplosione turistica, la spesa non vale l’impresa. Almeno per quanto riguarda le casse comunali (senza considerare il gettito fiscale dovuto agli alberghi e ai ristoranti), era meglio tenere il Diego Armando Maradona chiuso. Come sempre quando non gioca il Napoli.

A qualche miglio a largo della costa flegrea, dove alloggia l’impianto dedicato al Pibe de oro, appaiono in sequenza l’isola di Procida e quella di Ischia. La prima è stata Capitale italiana della cultura nel 2022, mentre nello stesso anno – il 26 novembre – la seconda è stata oggetto di un’alluvione che ha portato alla morte di dodici persone, notizia rimbalzata anche fuori dai confini, visto il forte legame tra l’isola verde e gli affezionati visitatori tedeschi, inglesi e americani.

Se l’idea è ospitare i grandi eventi per aumentare i flussi turistici, come è possibile che non si riesca a elevare la qualità dei servizi?

Per quanto riguarda Procida, il successo dovuto al titolo di Capitale italiana della cultura ha avuto diverse ripercussioni. Quel mezzo milione di presenze solo ad agosto, nell’anno in cui l’isola di Arturo è stata la reginetta della cultura italiana, ha lasciato qualche strascico. Un tempo meta estiva della borghesia napoletana, di accademici, intellettuali e artisti, la più selvaggia e teoricamente meno votata al turismo tra le isole del Golfo, è diventata ostaggio delle sue contraddizioni. Le recensioni dei turisti su Tripadvisor non solo lusinghiere. Alla decantata bellezza del luogo fanno da contraltare un trasporto pubblico indecente e l’avidità di alcuni operatori del turismo privi di visione. L’afflusso improvviso di gente, concentrato in un periodo molto breve e accompagnato dall’impossibilità “fisica” di aumentare l’offerta, ha comportato disservizi e soprattutto ha contribuito ad abbassare la qualità della vita: tutto ciò che Procida aveva da offrire prima non è più stato come dopo.

D’estate l’isola è una meta ambita, da cui però il turista finisce per scapparsene con la sensazione di essere stato ospite di un girone infernale in cui a farla da padroni sono i clacson, i rumori e il traffico. Procida è la testimonianza vivente che non è possibile accogliere chiunque voglia visitarla. Non nello stesso momento, almeno. La sovraesposizione mediatica degli ultimi anni ha portato diversi vantaggi, ma in termini complessivi resta la perdita di quella “lentezza” che ne caratterizzava il patrimonio simbolico e culturale. Oggi dell’isola di Arturo e della bella Graziella resta poco o nulla. Quando il turismo di massa si accorgerà che può allignare in luoghi più comodi e meno opprimenti, bisognerà sperare che non restino solo le macerie della “nuova” Procida. Anche qui, come nel caso dello stadio Maradona concesso ai Coldplay, viene da chiedersi se non fosse stato meglio non diventare capitale della cultura. Sembra una domanda assurda, e per certi versi lo è, ma se il bel progetto di Procida Capitale della cultura sperava che i turisti internazionali dovessero accorrere sull’isola per riscoprire un modo lento di stare al mondo, dopo due anni è accaduto il contrario: Procida e i procidani hanno scoperto il modo troppo veloce di stare al mondo lontano dall’isola. E lo hanno fatto nel peggiore dei modi.

La velocità. Quella della colata di fango che, il 26 novembre 2022, è scesa giù da un costone di montagna ed è precipitata a valle a Lacco Ameno, isola d’Ischia. Il tragico incidente ha mietuto dodici vittime che hanno riportato all’attenzione mediatica il problema del fragile ecosistema ischitano, colpito negli anni su più versanti: terremoti, abusivismo, frane e alluvioni. Sembrava un episodio destinato a finire nel dimenticatoio come gli altri del recente passato. Eppure, nonostante le previsioni che parlavano di ripartenza immediata, ad agosto di quest’anno da più parti si è fatto notare come il turismo a Ischia abbia rallentato. Non a caso, poco prima di Ferragosto, l’edizione napoletana de “la Repubblica” scrive:

«Fermi tutti. A Ischia potrebbe essere finita un’era. Quella del turismo di massa. O almeno dei flussi di agosto che per decenni hanno caratterizzato l’isola: soggiorni lunghi, soprattutto in fitto, e alberghi stracolmi. “No, quest’anno non funziona così”, taglia corto Alex Cannava dal suo ufficio di Infoischia.com, tra i principali portali turistici legati all’isola. “Ci sono molti alberghi vuoti o quasi, un segnale inedito nei giorni che precedono il Ferragosto”».

Ferragosto senza pienone. Non accadeva da tantissimo tempo. Ci fa sapere “Il Mattino” che nei tre porti commerciali delle isole di Ischia e Procida il calo di presenze ammonta all’8,3%. A calare sono soprattutto le presenze degli italiani a causa dell’inflazione, delle tariffe più alte sulle isole, dell’invivibilità. Fatto sta che due tra i più bei luoghi della penisola oggi rischiano di essere travolti da una inadeguata programmazione e di essere fagocitati da un sistema turistico di bassa qualità, che impatta sull’ambiente e sulla qualità di vita degli abitanti in maniera profondamente negativa, mettendo in dubbio persino i profitti che almeno fino a un po’ di tempo fa gli operatori più aggressivi riuscivano ad assicurarsi.

Due tra i più bei luoghi della penisola rischiano di essere fagocitati da un sistema turistico di bassa qualità

Anche qui la domanda: la spesa vale l’impresa? Simbolo di questa decadenza ischitana, monito eterno di quanto le cose possano essere immaginate male e realizzate peggio, è la Villa La Colombaia, nel bosco di Zaro nel Comune di Forio, acquistata dal regista Luchino Visconti per poter vivere in un ritiro creativo ma non solitario, circondato da attori celebri. Ma qui non c’è traccia nemmeno dei fantasmi di Burt Lancaster, Alain Delon, Romy Schneider, Helmut Berger. Abbandono e silenzio regnano incontrastate. Quest’anno, come di sovente accade, ci ha provato Legambiente a denunciare lo scandalo a cielo aperto rappresentato da La Colombaia.

Dopo la morte del Maestro, infatti, la villa è stata acquisita dal Comune di Forio e successivamente gestita tramite una Fondazione partecipata dalla Regione Campania. La gestione clientelare e fallimentare dal punto di vista economico ha comportato la chiusura del sito, che era aperto al pubblico. Gli arredi originali di Visconti sono spariti, nel tempo la struttura è stata completamente spogliata e abbandonata al degrado. Tanto che il Comune ha deciso di chiuderne l’accesso per motivi di sicurezza e responsabilità.

Se a Napoli non passano gli autobus, se Procida è invivibile e Ischia non è in grado di tenere aperto un monumento, Capri non esiste nemmeno più. Come Venezia finirà sommersa dall’immagine di sé stessa, ancor prima che dagli agenti atmosferici. Capri non esiste nella percezione della gente comune, del turista più o meno inteso come il turista-tipo. In un luogo dove un caffè espresso nel più fetido bar del porto costa cinque euro, è chiaro che qualcosa deve essersi spezzato nel rapporto tra le cose e il loro valore. La sparizione dei significati.

Sarà per questo che i celebri taxi scoperti che scarrozzano giorno e notte su e giù dall’isola i ricchi stranieri chiedono cifre prive di ogni connessione con il tempo e lo spazio percorso. Un rapporto flebile e immaginifico con la realtà, quello dei tassisti capresi, che ha portato alla smaterializzazione del dubbio e persino della sensazione di essere fregati. Tutto è virtuale sull’Isola azzurra, tranne i pagamenti che i tassisti pretendono rigidamente in contanti, adducendo scuse di ogni genere pur di non afferrare il polveroso Sum Up nel cruscotto e procedere a transazioni con carta, dunque tracciabili, che generalmente sono rese impossibili dalla scadente qualità della connessione. Ma come? L’isola degli yacht, delle star di Hollywood in vacanza, dei miliardari in piazzetta non consente relazioni stabili tra il fisco e i tassisti? Tranne qualche vago commento un po’ infastidito in inglese, generalmente il turista smette di riflettere sugli oscuri destini delle finanze pubbliche italiane entro pochi minuti per tornare a godersi la vacanza. Per continuare a spendere. Per continuare a bere limonate con la cannuccia dentro cedri giganti e ammuffiti, per continuare a sorseggiare sgroppini annacquati e limoncelli di fabbrica, a indossare sandali venduti come artigianali, per continuare a spendere spendere spendere. Capri è una slot machine, ti fa pagare tutto e non vinci mai. Ogni cosa costa di più che in qualsiasi altro luogo del mondo. Non esiste un posto al mondo dove si consuma la stessa quantità di talloncini per prezzare gli oggetti nei negozi. Non c’entra l’inflazione, è Capri in quanto Capri.

La cosa davvero interessante è come questa dinamica predatoria venga digerita alla svelta da chiunque si trovi sull’isola nel giro di pochi istanti. Sarà la bellezza del luogo, l’incanto del mare, l’aria che si respira dal Salto di Tiberio… fatto sta che Capri conduce chiunque, anche il più agguerrito sostenitore delle finanze nazionali, ad abbandonare ogni proposito di equità sociale. Si diventa omertosi. Complici dei prezzi assurdi e degli scontrini fantasma. Quest’isola a dir poco meravigliosa è davvero un paradiso. In tutti i sensi. Fiscale, soprattutto.