Questo articolo fa parte dello speciale Vacanze italiane
La spiaggia non è solo un territorio fisico e geografico, ma soprattutto un vero e proprio topos nel quale si possono rispecchiare in forme più o meno evidenti le caratteristiche sociali, antropologiche e identitarie di un popolo.
Con i suoi circa 7.500 chilometri di coste, nella sua qualità di Paese “balneare” per definizione, l’Italia rappresenta in tal senso un caso del tutto paradigmatico. Qui l’arenile costituisce quanto mai il luogo in cui viene letteralmente messo a nudo, con tutte le sue storiche e insanabili contraddizioni, il “carattere nazionale”. Non stupisce quindi che la spiaggia occupi nell’immaginario italiano un posto di primo piano e che per questo abbia rappresentato nella nostra tradizione cinematografica (oltre che in quella pittorica, letteraria e musicale) il set ideale di una moltitudine di opere capaci di mettere in scena e interpretare con una peculiare nitidezza i mutamenti storici, sociali e antropologici vissuti dal nostro Paese nel corso del tempo.
Prima del secondo dopoguerra tuttavia la spiaggia non riesce a conquistarsi una posizione di centralità nel cinema italiano. Il mare rappresentato negli anni del regime fascista è ad esempio quello solcato dalle triremi imperial-romane e la sabbia quella dei deserti esotici in cui si ambientano le gesta dei condottieri celebrati dalla dittatura. È piuttosto nei materiali di carattere documentario ed esplicitamente propagandistico che, in tale periodo, i lidi italici vengono esaltati in quanto sorta di “terra promessa”, come attestano i tanti cinegiornali fascisti nei quali le masse in scena immortalate sulla sabbia non sono quelle degli eserciti romano e cartaginese l’un contro l’altro armati in terra d’Africa, bensì la miriade di corpi seminudi dei bagnanti intenti a trascorrere sui nostri litorali le ore libere dal lavoro.
Con i suoi circa 7.500 chilometri di coste, nella sua qualità di Paese “balneare” per definizione, l’Italia rappresenta un caso del tutto paradigmatico
Da un lato, insomma, c’è l’epica storica che, attraverso il recupero di un certo passato mitologizzato, serve a consacrare l’immagine imperialista del regime, dall’altro la mitologia balneare che, in modo complementare, mira a celebrarne il culto del corpo e della salute fisica ugualmente in una prospettiva di conquista colonialista.
Bisogna attendere il 1950 di Domenica d’agosto di Luciano Emmer affinché il mare, la riva e le attività che vi si svolgono in una tipica giornata festiva d’estate diventino il tema centrale di un’opera di finzione, segnando il principio di una nuova stagione cinematografica che a sua volta è lo specchio del rinnovamento vissuto dal nostro Paese in quegli anni. La “condizione balneare” descritta da Emmer è quella in cui il rimosso della guerra, e l’immaginario a esso connesso, mutano di segno in un’Italia che ora vuole letteralmente lavarsi di dosso la polvere delle macerie della guerra.
Negli anni successivi il topos della spiaggia va gradualmente accentuando il suo carattere multiforme nel quale ciò che è radioso, festoso, rassicurante e familiare convive con il suo risvolto più perturbante e oscuro. A tenere insieme il tutto è la dimensione di vera e propria arenache il litorale va acquisendo in termini di luogo di esercizio dello sguardo e della performance, di messa in mostra di rituali sociali e di fenomeni più o meno bizzarri. Da un lato, ecco allora un’opera paradigmatica come La spiaggia (1954) di Alberto Lattuada in cui la riva si fa arena sociale all’ennesima potenza, acquisendo una coloritura persino politica e assurgendo in tal senso a lucida metafora dell’Italia pre-boom economico. Dall’altro, si faccia invece riferimento alla gran parte della filmografia di Federico Fellini, nella quale lo spazio litoraneo, assumendo spesso i connotati del set o dell’arena circense, si fa orizzonte immaginifico ed espressionista, metafisico e simbolico, arcaico e atemporale.
Con l’avvento del boom economico la spiaggia diventa nel cinema italiano un “luogo comune” talmente ricorrente da determinare la nascita di un vero e proprio filone balneare. Vacanze a Ischia (1957) di Mario Camerini, Tipi da spiaggia (1959) di Mario Mattoli, Ferragosto in bikini (1960) di Marino Girolami, Frenesia dell’estate (1964) di Luigi Zampa sono solo alcuni dei titoli più rappresentativi di una serie di pellicole in cui si mette in bella mostra l’Italia sovreccitata dal nuovo corso storico, sociale ed economico nel quale essa è appena entrata. La riva vi si ufficializza come territorio di totale sospensione dei codici che regolano moralmente e socialmente la vita ordinaria e in cui trionfa una dimensione carnevalesca alla quale si ha democraticamente accesso purché si sia (s)vestiti in costume (da bagno).
Nello stesso periodo anche un caposaldo della commedia all’italiana come Il sorpasso (1962) di Dino Risi celebra nella sua sezione finale il rito delle vacanze al mare che si fa ideale occasione per fotografare in modo lucido e impietoso l’Italia alle prese con la vorticosa accelerazione sociale e storica impressa dal boom economico.
Nel corso degli anni Sessanta le rive del nostro cinema si cominciano del resto a trasformare in scenari di un’inesorabile deriva in cui si condensa un sostanziale scetticismo nei confronti del processo di modernizzazione vissuto dal Paese. Ecco allora un’altra opera paradigmatica di Risi come L’ombrellone (1965), film che, pur rientrando a pieno titolo nel filone della commedia balneare, ne propone il ribaltamento grottesco dei motivi centrali rappresentandone di fatto il canto del cigno. Qui la spiaggia non è più il solare, quantunque illusorio, approdo di un viaggio fisico ed esistenziale (come ne Il sorpasso), bensì il luogo simbolo di una vera e propria degenerazione della condizione umana.
Nei Sessanta le rive si cominciano a trasformare in scenari di un’inesorabile deriva in cui si condensa un sostanziale scetticismo nei confronti del processo di modernizzazione vissuto dal Paese
Negli anni successivi il paesaggio della riva, svuotato delle consuetudini e degli accessori propri delle pratiche del tempo libero così come esse sono state ritualizzate durante il miracolo economico, si va facendo sempre più orizzonte fuori dalla Storia, spesso in quanto spazio d’ambientazione di vicende in cui l’umanità torna a una sorta di arcaica quanto ferale condizione primigenia, come accade paradigmaticamente in buona parte del cinema di Marco Ferreri.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei settanta, mentre da un lato il cinema italiano scopre dunque nuovi orizzonti balneari, vergini e incontaminati come ad esempio quelli della Sardegna (per tutti si veda nel 1974 il caso di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller), dall’altro esso mostra la condizione di inquinamento a cui le coste della penisola sono andate fatalmente incontro, facendosi ricettacolo delle scorie, fisiche e simboliche, prodotte dalla modernizzazione, come viene mostrato impietosamente in varie sequenze di Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)(1970) di Ettore Scola e In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi. A queste opere, pur su un fronte completamente diverso sul piano narrativo ed estetico, va aggiunto un celebre titolo di Luchino Visconti come Morte a Venezia (1971), il cui finale, col suo trionfo di eros e thanatos sulla spiaggia del lido, estetizza al massimo livello la condizione di avvelenamento reale e simbolico che ormai pervade gli arenili del cinema italiano.
Tale dimensione di generale decadenza è del resto quella che, nel corso di una stagione storica progressivamente sommersa dalla coltre di piombo del terrorismo e della violenza politica, interessa la stessa condizione balneare, come sancisce l’emblematico Casotto (1977) di Sergio Citti, vera e propria fenomenologia del capanno balneare che, in quanto tale, costituisce la radicale quanto claustrofobica negazione del concetto stesso di spiaggia quale metafora di libertà ed evasione.
Bisognerà aspettare il 1983 di Sapore di mare di Carlo Vanzina per ritrovare quello che forse è l’ultimo vero beach movie all’italiana. Rappresentando infatti l’occasione per un tentativo di ripresa della commedia balneare, questo film è proiettato in un passato prossimo e insieme ormai remoto che coincide con l’età d’oro delle pellicole estive di ambientazione marinara di cui, adottandone lo scenario e la struttura narrativa, riprende e omaggia le atmosfere. È la compianta Italia dei sixties quella raccontata in Sapore di mare il cui “Eden” diventa per antonomasia sinonimo di un’estate che, nel periodo del “riflusso”, assume i connotati della solare stagione-rifugio seguente al lungo e rigido inverno degli anni di piombo.
In virtù dello straordinario ruolo incarnato nell’immaginario nazionale nell’ampio lasso di tempo qui sintetizzato, la spiaggia ha successivamente potuto giovarsi di un consolidamento della propria funzione topica, tornando “in circolo” più volte e a vario livello sul grande e sul piccolo schermo. Da Ferie d’agosto (Paolo Virzì, 1996) a Come un gatto in tangenziale (Riccardo Milani, 2017), replicando in parte schemi del passato, gli arenili non hanno perso la loro funzione di spazi liminali capaci di condensare i vizi e i vezzi degli italiani così come le trasformazioni sociali, economiche e politiche del Paese. Nel contempo essi si sono progressivamente caricati di una radicale dimensione ferale esibendo, in crime series diventate cult come Gomorra (2014-2021) e Suburra(2017-2020), la propria canonica funzione di frontiera in questo caso declinata nei termini del confine ultimo tra legalità e illegalità.
Tale mansione di soglia le spiagge l’hanno incarnata anche in un’altra cruciale direzione come quella del rapporto con l’altro, inteso in senso propriamente etnico e culturale. Il cinema italiano, tra finzione e documentario, ha riflettuto a più riprese e con moduli stilistici di volta in volta diversi sullo statuto di confine assunto dalle nostre coste e interpretato ora nei termini di un’interfaccia funzionale alla mediazione fra i popoli, ora, al contrario, in quelli di uno sbarramento atto all’esclusione e al rigetto verso il mare dell’estraneo.
In entrambi i casi è la secolare condizione liminale tra speranza e disillusione, libertà e oppressione, apertura e chiusura quella che il topos della spiaggia ha continuato a interpretare con una potenza drammaturgica e una carica immaginifica del tutto uniche.
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